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Pieces of a woman, recensione – Venezia 77

Pieces of a Woman è tra i film destinati a lasciare il segno nel cuore e nella mente degli spettatori nel 2021 e che si inserisce tra i titoli da non perdere su Netflix destinati a essere al centro della corsa alle nomination dei riconoscimenti più importanti della stagione cinematografica, posticipata di qualche mese a causa delle conseguenze della pandemia, compresi gli ambiti Oscar.
Vanessa Kirby, già apprezzata dalla critica grazie al ruolo della principessa Margaret nelle prime due stagioni di The Crown, trova nel film diretto da Kornél Mundruczó un ruolo che le permette di dimostrare sul grande schermo il proprio talento e una grande intensità emotiva, elementi messi al servizio della sceneggiatura firmata da Kata Wéber e tratta dall’omonimo spettacolo teatrale di cui si sente più volte, per quanto riguarda la messa in scena, l’influenza.

Al centro della trama del film c’è la coppia composta da Martha (Kirby) e Sean Carson (Shia LaBeouf), pronti finalmente a diventare genitori. La loro felicità si trasforma però in tragedia durante il parto in casa. La vita di Martha va letteralmente in pezzi e il rapporto con il marito e la madre (Ellen Burstyn) paga le conseguenze di un trauma incomprensibile e inaspettato.

Pieces of a Woman si apre con un piano sequenza già al centro di dibattiti e numerosi articoli, ma la vera forza del lungometraggio è nella capacità di portare in scena il senso di smarrimento e i tentativi, così umani e proprio per questo imperfetti, di ricominciare a vivere e trovare un senso a uno dei lutti peggiori che si possano vivere. Vanessa Kirby si immerge totalmente nelle luci e nelle ombre della protagonista e delle sue decisioni a tratti controverse, regalando innumerevoli sfumature a Martha, seguendo l’evoluzione delle sue emozioni senza mai risultare sopra le righe o forzata.
Accanto a lei Shia LaBeouf – i cui sogni di essere in corsa per un Oscar sembrano ormai ostacolati definitivamente dalle accuse di violenza e abusi che gli sono stati rivolti da FKA Twigs – propone un’altra performance di spessore nonostante la figura di Sean sia delineata maggiormente a grandi linee e non sia priva in più passaggi di stereotipi.
Dispiace, invece, che all’esperta Ellen Burstyn sia stato affidato uno dei monologhi maggiormente fuori luogo e il cui contenuto legato agli eventi storici appare poco motivato e superfluo. Sarah Snook, la grande rivelazione di Billions, e Molly Parker, inoltre, avrebbero forse meritato uno spazio maggiore per far emergere i propri personaggi dall’ombra della performance di Vanessa Kirby che si inserisce senza difficoltà tra le migliori degli ultimi anni.

La sceneggiatura di Kata Wéber, pur essendo influenzata dalle origini teatrali, non esita mai a portare in scena anche le decisioni più discutibili compiute da Martha trovando il modo di impedire giudizi frettolosi nei confronti di una donna alle prese con la sofferenza. Nonostante sia un film imperfetto, Pieces of a Woman diventa un affascinante viaggio nella mente e la regia di Mundruczó riesce a sfruttare nel migliore dei modi le interpretazioni del proprio cast che permettono di superare l’eccessiva frammentazione della narrazione conducendo a un finale che potrebbe lasciare persino interdetti con la sua carica di speranza e luce al termine di un percorso così carico di tensione emotiva e oscurità.

Duro, spiazzante e coinvolgente nella sua tragicità, Pieces of a Woman rende Vanessa Kirby uno dei volti che gli appassionati di cinema ricorderanno di più nel 2021, in grado di spingere con i suoi sguardi a riflettere sul significato di maternità e sulla capacità di sopravvivere anche quando tutto nella propria vita è stato spezzato e travolto.

Nomadland: recensione – Venezia 77

Nomadland sarà, probabilmente con One Night in Miami, tra i protagonisti di una stagione di premi che farà inevitabilmente i conti con i tanti ritardi e posticipi nella distribuzione causata dalla pandemia, ma il film di Chloé Zhao meriterebbe numerosi riconoscimenti anche in un periodo contraddistinto da una concorrenza ben più agguerrita e numerosa. La regista, dopo l’affascinante The Rider, regala un altro ritratto indimenticabile ed emozionante di una parte della società americana che difficilmente viene posta sotto le luci della ribalta dei mezzi di comunicazione e lo fa con un rispetto e una sensibilità che denotano un talento raro e prezioso. Si potrebbero scrivere numerosi saggi sul modo in cui Chloé Zhao ritrae i paesaggi americani e la quotidianità di un’esistenza trascorsa on the road, ma l’elemento che lascia veramente il segno in Nomadland è il modo con cui tratteggia con grande bravura e sicurezza individui che vivono ai margini e isolati, volontariamente, dal resto della società. Difficile immaginare un’altra attrice al posto di Frances McDormand nel ruolo di Fern che sembra fatto su misura per lei. Non c’è quindi da stupirsi che sia stata proprio la star di Tre Manifesti a Ebbing. Missouri ad acquistare i diritti del libro di Jessica Bruder con l’intenzione di portare le storie raccontate tra le pagine in un film, trovando in un secondo momento la regista – e sceneggiatrice – perfetta per il progetto.

Sul grande schermo si segue così Fern, “senza casa ma non senzatetto”, che rimasta vedova e alle prese con problemi economici ha deciso di vivere in modo nomade, spostandosi a bordo della sua roulotte attraverso gli Stati Uniti, accettando vari lavori stagionali e incontrando altre persone come lei che hanno trovato pace ed equilibrio in una vita senza fissa dimora, condividendo esperienze ed emozioni con chi incontrano per la strada. Frances McDormand trasmette una sensazione di autenticità e onestà necessarie a sostenere le scene più emozionanti come quelle in cui parla dell’amore che la lega ancora al defunto marito con un giovane incontrato per caso o mentre affronta la straziante malinconia di una casa vuota che non le appartiene più, nemmeno emotivamente. L’attrice ha compiuto un lavoro impeccabile nell’immergersi nel proprio personaggio e la sua performance è misurata e attenta, sempre in grado di far emergere nelle espressioni e nei piccoli gesti l’interiorità di Fern, ma senza nemmeno mettere in secondo piano il suo bisogno di avere dei legami umani e dare spazio a un calore materno che si manifesta nel modo in cui si “prende cura” di altri nomadi e di chi ha incontrato sul lavoro. Nomadland, sfruttando anche la presenza di attori non professionisti, regala delle storie di grande umanità e dignità e una protagonista femminile che ha compiuto molti sacrifici nella propria vita e, alle prese con le difficoltà, ha continuato a lottare trovando la propria identità e libertà nonostante si confronti ogni giorno con il proprio passato e con un’assenza importante accanto a lei. Nella vita di Fern non mancano le radici, le amicizie e nemmeno un potenziale amore, elemento gestito con incredibile bravura usando le interazioni con Dave, interpretato senza sbavature da David Strathairn. Il rapporto tra i due personaggi, ormai non più giovanissimi e con i propri problemi e ostacoli da superare, è all’insegna della comprensione e del rispetto e va contro gli stereotipi hollywoodiani che avrebbero puntato tutto su uno scontato lieto fine.

La regista, oltre a permettere alla sua star di dimostrare tutto il proprio valore con la performance emozionante di una donna dalle mille sfumature, porta sugli schermi il mondo delle persone senza dimora rimanendo sempre alla giusta distanza: c’è dell’innegabile ammirazione e bellezza nel suo approccio a queste esistenze dalle caratteristiche senza paragoni, ma non vengono nemmeno nascosti i lati negativi e le contraddizioni di chi decide di partire per un viaggio apparentemente senza meta. Il lungometraggio sa entrare in connessione con gli spettatori dando spazio a persone reali le cui esperienze danno voce a uno dei tanti lati della società contemporanea americana: dai giovani che si allontanano da casa alla generazione rimasta economicamente in ginocchio dopo la recessione, senza dimenticare chi si trova ad affrontare traumi e sofferenze che li hanno spinti a iniziare un cammino alla scoperta di se stessi e del proprio posto nel mondo. Il susseguirsi delle stagioni e delle interazioni di Fern scandiscono, accompagnato dalle musiche di Ludovico Einaudi e valorizzato dalla splendida fotografia di Joshua James Richards, un’esplorazione coraggiosa di persone uniche nelle loro fragilità pur essendo assolutamente “normali” nelle loro vite uniche.
Il mondo dei Nomadi moderni, che vivono esistenze solitarie e al tempo stesso vanno alla ricerca di legami autentici e duraturi, viene seguito con l’equilibrio giusto tra poesia, malinconia e riflessione sulla società, approfondendo uno spaccato di vita americana che riesce comunque a trasmettere un messaggio universale e rendendo Chloé Zhao un talento da non perdere assolutamente di vista, lasciando la curiosità di scoprire in che modo si è avvicinata al Marvel Cinematic Universe con l’atteso The Eternals.