Raccontare la storia di un’icona non è mai semplice e Andrew Dominik ha accettato la sfida con Blonde, film che prova a raccontare la storia di Marilyn Monroe ispirandosi al romanzo scritto da Joyce Carol Oates e sfruttando l’ottima performance di Ana de Armas.
Destinato a far discutere con la sua rappresentazione senza filtri e in cui gli eccessi, tragici e durissimi, trovano più spazio rispetto ai momenti felici, il film prodotto per Netflix propone in quasi tre ore una rappresentazione di un’eroina tragica sfruttata e abusata, una fiaba nera in cui la giovane innocente viene divorata dal mondo di Hollywood fatto di apparenza, luci brillanti e poco rispetto per l’interiorità e l’intelligenza di chi ha avuto la (s)fortuna di nascere bellissima.
Blonde getta le basi della tragedia che diventerà la vita di Marilyn dando un po’ di spazio alla sua infanzia all’insegna della disperata ricerca di amore che contraddistinguerà anche la sua vita da adulta. Gli alti e bassi della star emergente vengono tratteggiati seguendo le sue relazioni con gli uomini da chi usa il suo corpo in cambio di opportunità a chi professa amore libero e riempie per la prima volta un vuoto emotivo che contraddistingue la sua quotidianità, passando per chi diventa violento per gelosia e chi invece ne apprezza un’interiorità rimasta spesso in ombra senza però riuscire a gestirne gli sbalzi emotivi, arrivando poi alla discussa relazione con il presidente John Fitzgerald Kennedy che contribuisce alla sua definitiva resa nei confronti di un destino fin troppo spietato.
Dominik sembra giocare in modo costante con l’idea che tutti, anche gli spettatori contemporanei, siano in parte colpevoli di quanto accade alle star come Marilyn, ridotte contro il loro volere a uno strumento per guadagnare, intrattenere e private dei loro diritti, persino a tratti della propria dignità. Gli scatti rabbiosi dell’attrice, grazie a un’interpretazione di Ana de Armas attenta a non superare mai il limite anche nei momenti più estremi, diventano così un grido di denuncia e di rabbia nei confronti di una società che rende unidimensionali gli esseri umani, trasformandoli in un’immagine che nasconda ogni possibile difetto per proporre un ritratto di vuota perfezione che diventa una condanna per chi cerca di ottenere rispetto e difendere i propri diritti e la propria dignità. La protagonnista incarna bene l’insieme di innocenza e dolore necessario a sostenere la narrazione tratteggiata dalla scrittrice e dal filmmaker in cui si porta sugli schermi la creazione di un personaggio, a scapito della persona.
Non tutto funziona nel mostrare la trasformazione di Norma Jean Baker in Marilyn Monroe e, nonostante le sequenze che mostrano i problemi mentali della madre e l’abbandono subito da bambina, il vuoto che contraddistingue l’esistenza dell’attrice che la porta inizialmente ad accettare abusi sessuali e situazioni, decidendo poi di sfruttare la sessualità per ottenere ciò che vuole, rimane più un elemento metaforico che una realtà.
Gli elementi inventati o portati all’estremo, come il ménage à trois con i figli di Charlie Chaplin ed Edward G. Robinson, o l’insistenza del regista nell’affrontare le gravidanze in modo fin troppo parziale, penalizzano in modo eccessivo un film che raggiunge in più momenti un’intensità emotiva memorabile, purtroppo limitata da alcune scelte registiche discutibili come quelle legate alla relazione con JFK che assumono caratteristiche quasi vicine alle allucinazioni.
Blonde riesce tuttavia, nonostante i suoi difetti, a proporre una triste e realistica rappresentazione della nascita di un mito il cui lato oscuro è rimasto sempre in secondo piano, volontariamente o a causa della semplice ignoranza in materia, senza dare l’attenzione alle conseguenze a lungo termine. La suggestiva colonna sonora firmata da Nick Cave e Warren Ellis, la fotografia di Chayse Irvin e le interpretazioni di alto livello di tutti i membri del cast, contribuiscono a rendere il film un’opera interessante ricca di spunti su cui riflettere a lungo.
Paolo Virzì torna alla regia con un film ambizioso: Siccità intreccia infatti più storie sullo sfondo di una Roma alle prese con una mancanza di pioggia che rende la vita di tutti complicata e a volte inaspettata.
Tra i protagonisti ci sono Antonio che, dopo aver ucciso la compagna, non sembra più interessato alla libertà; Loris che affronta i fantasmi del passato; l’attore Alfredo che cerca di aprire un nuovo capitolo della sua carriera sfruttando i social e sua moglie Mila che lavora in un supermercato e va alla ricerca di amore; la dottoressa Sara che si ritrova a combattere contro una malattia infettiva che semina morte e suo marito Luca che ha riallacciato i rapporti con Mila; l’infermiera Giulia che aspetta un figlio e ha delle ferite emotive che non si sono ancora rimarginate, e altre esistenze che si intrecciano e influenzano a vicenda, spaziando tra classi sociali e situazioni sentimentali molto diverse tra loro.
Siccità, sfruttando un po’ le emozioni suscitate durante il periodo della pandemia, prova a tratteggiare il ritratto di una società sospesa tra passato e presente, tra voglia di rivalsa e accettazione di un destino infausto che rischia di minare ogni speranza, il tutto senza mettere in secondo piano le varie sfumature dell’amore, da quello dei genitori per i propri figli alla complessità dei sentimenti tra coniugi e partner di vita. La complessa rete di situazioni ed emozioni, in cui non manca una vena di umorismo esilarante e a tratti molto cinico grazie alle interpretazioni di Valerio Mastandrea e Silvio Orlando, entrambi autori di una performance molto naturale che non appare mai forzata nemmeno nei momenti più surreali .
I personaggi, con un buon equilibrio tra momenti realistici e passaggi onirici, si muovono per le strade e i luoghi più iconici di Roma, mostrando una versione della città in cui le luci degli appartamenti lussuosi si scontrano con realtà disagiate, aride e abitate da insetti ed esseri umani che hanno fatto posto anche a livello emotivo alla siccità che ha colpito la capitale.
Virzì sfrutta bene la bravura dei propri interpreti e la fotografia, sempre attenta e suggestiva firmata da Luca Bigazzi, riuscendo nel suo tentativo di far emergere difetti e contraddizioni di Roma e dei suoi abitanti, pur perdendo in più momenti il controllo della narrazione che si ostacola da sola con una struttura in cui non tutti i tasselli vengono sviluppati in modo soddisfacente, come accade con la parte del racconto dedicato al figlio di Alfredo e Mila o ad alcuni apassaggi dell’odissea di Antonio, mentre altri elementi come la star interpretata da Monica Bellucci che appare una presenza piuttosto stereotipata e, nell’insieme del racconto, superflua.
La colonna sonora di Franco Piersanti accompagna bene Siccità fino al suo epilogo catartico in cui tutti i percorsi individuali, dopo essersi intrecciati e a tratti scontrati, giungono a un finale più o meno convincente, contribuendo al buon risultato ottenuto dalla nuova fatica di Virzì che, anche nei momenti più deboli, riesce comunque a far riflettere con intelligenza e la giusta dose di ironia mostrando esseri umani assettati, non solo a causa della mancanza di acqua.
Phyllis Nagy, dopo aver firmato la sceneggiatura di Carol, ritorna dietro la macchina da presa con Call Jane, film ispirato alle attività del gruppo Jane Collective che, negli anni ’60 e ’70, ha aiutato le donne in difficoltà offrendo la possibilità di abortire in modo sicuro in un periodo in cui l’interruzione di gravidanza era ancora quasi del tutto illegale.
Per avvicinare gli spettatori a questa drammatica situazione sullo schermo si racconta la storia di Joy (Elizabeth Banks), moglie di avvocato e già madre, che si ritrova inaspettatamente alle prese con una gravidanza che mette seriamente a rischio la sua salute, scoprendo che non ha alcuna voce in capitolo sull’eventuale decisione di abortire. Dopo la drammatica scoperta, mostrata con un’efficace sequenza in cui la donna e suo marito si confrontano con il team di medici (ovviamente completamente formato da uomini) che devono decidere se ci sono gli estremi per intervenire, rendendosi conto che nessuno chiede la sua opinione o indaga sui suoi desideri e problemi, Joy scopre una realtà fatta da incidenti casalinghi compiuti appositamente per obbligare lo staff medico a compiere l’aborto, presunte soluzioni e attività illegali che mettono a rischio la vita delle donne. A cambiare tutto sarà la scoperta dell’esistenza dell’organizzazione che interviene per aiutare chi è in difficoltà offrendo una procedura sicura, assistenza psicologica e sostegno. Joy, dopo aver provato in prima persona l’ingiustizia causata dalle leggi in vigore, prenderà quindi in mano la sua vita impegnandosi attivamente per aiutare chi si trova nella sua stessa situazione.
Il film Call Jane è particolarmente efficace nel ricreare l’atmosfera degli anni in cui si svolge la storia e propone dei ritratti femminili, in particolare quello di Joy interpretata con convinzione e trasporto da Elizabeth Banks, mai unidimensionali. L’evoluzione della protagonista, accompagnata da una colonna sonora che comprende anche dei brani dei Velvet Underground e da citazioni di opere cinematografiche e letterarie come Vertigo, è ben costruita per rendere credibile come la mite casalinga e madre di una quindicenne sia pronta a mentire e rischiare problemi con la legge, lottando per ciò in cui crede. La sceneggiatura di Hayley Shore e Roshan Sethi delinea inoltre con bravura la figura dell’attivista Virginia (Sigourney Weaver), la carismatica leader dell’organizzazione che sa gestire l’attività clandestina e offrire al tempo stesso sostegno emotivo alle donne che si affidano ai suoi servizi. I dialoghi tra i membri della Jane Collective spaziano dal divertimento alle riflessioni sulle tematiche razziali e politiche, e rappresentano uno degli elementi più riusciti del lungometraggio.
I personaggi maschili, dall’avvocato dal buon cuore Will (Chris Messina) all’opportunista Dean (Cory Michael Smith) che compie la procedura clandestina più per soldi che per ideologia, non sono sviluppati nel migliore dei modi pur potendo contare su interpreti che riescono a infondere sfumature e profondità anche a scene fin sviluppate fin troppo a grandi linee. Deludono, inoltre, più del dovuto le presenze di Lana (Kate Mara), che rimane molto in ombra e incarna un po’ troppi stereotipi, e Charlotte di cui non si approfondisce mai realmente la rabbia adolescenziale o i dubbi personali che la portano a compiere anche duri giudizi.
La regista sa però trovare in Call Jane un buon equilibrio tra dramma e leggerezza, non edulcorando mai le paure e i rischi vissuti dalle donne durante un momento così personale come quello di un’interruzione di gravidanza. Il film ha inoltre il merito di ricordare tutte le possibili motivazioni che possono portare una donna a prendere una scelta, mai facile, che ha un impatto così importante sulla propria vita. Call Jane non è privo di difetti, ma la bravura della regista e delle interpreti portano a superare i punti deboli trasmettendo con forza e convinzione il messaggio alla base del progetto e spingendo a riflettere sui diritti delle donne.
Rebecca Hall regala uno dei monologhi più intensi, disturbanti e memorabili degli ultimi anni nel film Resurrection, un interessante thriller psicologico che sfocia in atmosfere horror presentato al Sundance 2022 e destinato a far parlare di sé a lungo.
Al centro della trama c’è Margaret (Hall), che lavora per un’azienda farmaceutica e sembra particolarmente controllata e leggermente ansiosa nei confronti di quello che potrebbe accadere alla figlia diciottenne (Grace Kaufman). Margaret si occupa da sola dell’adolescente e ha una relazione con un uomo sposato (Michael Esper). La vita della donna scivola però nel panico e nella paranoia quando nota un uomo misterioso (Tim Roth), legato al suo passato.
Successivamente si scoprirà, con un monologo straziante e incredibilmente intenso, che si tratta di David, con cui ha avuto una relazione 22 anni prima e l’ha sottoposta a abusi mentali ed emotivi, oltre a essere legato alla morte del loro figlio, Benjamin. Margaret è riuscita a fuggire e rifarsi una vita, tuttavia la sua semplice apparizione la fa scivolare in un vortice di ansie e paure, mentre chi è intorno a lei inizia a preoccuparsi seriamente della sua situazione, fino a quando una rivelazione la spinge a prendere una decisione drammatica.
L’interpretazione di Rebecca Hall sostiene con efficacia una narrazione che, affidata a un’interprete meno esperta ed espressiva, avrebbe potuto scivolare persino nel ridicolo. La protagonista, invece, rende credibile ogni passaggio della storia, anche i più surreali, e l’evoluzione del personaggio, dando vita a un crescendo ben gestito dal regista Andrew Semans. Il filmmaker ha inoltre sfruttato con intelligenza la fotografia rarefatta e fredda, che amplifica ancora di più l’effetto drammatico, firmata da Wyatt Garfield e una colonna sonora firmata da Jim Williams mai invadente e ben calibrata sugli eventi portati sullo schermo. La sceneggiatura di Semans delinea inoltre con attenzione la presenza di David, rendendo credibile la sua capacità di manipolare, la crudeltà che contraddistingue il rapporto con Margaret e il contrasto tra l’esteriorità mite e un’interiorità da sociopatico. Tim Roth appare la scelta perfetta per una parte così cruciale per la buona riuscita del progetto e le scene che lo vedono protagonista rendono credibile l’idea che una donna possa diventarne vittima e rischi di essere annientata mentalmente da una presenza così dominante nella sua vita. L’ultimo atto della storia sembra destinato a dividere gli spettatori, tuttavia è sostenuto da una struttura narrativa ricca di sfumature che rendono Resurrection un thriller davvero riuscito sulle conseguenze di un trauma, sui danni di una relazione tossica, e sulla capacità di trovare la forza di rialzarsi e iniziare un nuovo capitolo della propria vita.
Nei giorni in cui il nome di Alexei Navalny è tornato tra le pagine di cronaca, dopo le accuse delle autorità russe di essere un terrorista, al Sundance 2022 è stato presentato il documentario dedicato all’avversario di Vladimir Putin, progetto (con merito) premiato con numerosi riconoscimenti in questa edizione del festival.
Il regista Daniel Roher ha avuto modo di intervistare e seguire l’avvocato e politico mentre si trovava in Germania dove, nel 2020, stava ristabilendosi dopo un tentato omicidio compiuto avvelenandolo. Dopo essere uscito dall’ospedale, Navalny ha collaborato con il giornalista e hacker Christo Grozev, che fa parte del gruppo chiamato Bellingcat, per provare a fare chiarezza su quanto gli è accaduto. Le indagini compiute hanno così portato alla scoperta dell’identità di alcuni uomini che sembravano aver seguito Alexei fino a Tomsk. Uno dei momenti più inaspettati, ed efficaci, del documentario è proprio il momento in cui Navalny si finge un funzionario del governo e chiama i possibili colpevoli fingendo di voler capire perché l’oppositore non sia morto. Uno degli uomini che ha compiuto il viaggio seguendolo in Siberia, Konstantin Kudryavstev, inaspettatamente ammette di aver agito come pianificato, anche se il risultato non è stato quello sperato. L’attentato è inoltre mostrato grazie al drammatico video girato a bordo dell’aereo dove si trovava il politico quando ha iniziato a fare i conti con i terrificanti dolori fisici, come dimostrano le strazianti urla di Navalny. Sullo schermo spazio poi alla corsa in ospedale, alla lotta della moglie Yulia per provare a vedere il marito e assicurarsi che stia ricevendo le cure necessarie, temendo che la sua permanenza in un ospedale russo potesse rivelarsi mortale, l’intervento di Angela Merkel, il viaggio in Germania e le analisi che hanno portato alla conferma della sostanza, Novichok, usata per provare a far uscire di scena l’avversario di Putin.
Navalny, oltre agli elementi che farebbero la gioia di qualsiasi sceneggiatore di thriller politici, è però molto di più. Fin dall’inizio, infatti, sullo schermo si dà spazio alla personalità di Alexei che ha una visione molto chiara della pericolosità della sua situazione e, nonostante tutto, non perde la sua ironia e la sua determinazione. Nei primi minuti, posto di fronte a una domanda “scomoda”, Navalny si rende conto che la risposta potrebbe essere usata nel caso in cui venisse ucciso. L’attivista, che è un avvocato e ha iniziato la carriera politica per contrastare corruzione e criminalità, sa il valore e l’importanza delle sue parole e delle sue azioni, regalando così in più momenti delle riflessioni importanti sull’importanza delle scelte degli individui sulla società e sul far emergere la verità e lottare per la giustizia.
Roher permette di avvicinarsi alla figura del protagonista della sua opera in modo intelligente ed esaustivo, ripercorrendone la campagna, i comizi in cui è particolarmente attento a far esprimere ai presenti le critiche nei confronti di Putin senza dichiarare frasi che possono incriminarlo, la totale mancanza di rispetto da parte del suo avversario che decide di non pronunciarne mai il nome in segno di disprezzo e superiorità, l’attacco subito nell’aprile 2017 quando gli è stato spruzzato un liquido tossico in viso causandogli dei danni alla vista nell’occhio destro, i raid al suo ufficio e al suo team, l’esclusione da ogni articolo nei quotidiani e servizio televisivo, l’impossibilità di organizzare eventi e il continuo stato di tensione e pericolo che contraddistingue la sua vita quotidiana. Le situazioni proposte spingono inevitabilmente a far riflettere su quanta forza d’animo e resilienza sostengano l’attivista nella sua lotta contro il regime e il documentario permette inoltre di scoprire la prospettiva dei membri della sua famiglia, dalla moglie Yulia ai figli, tra cui la diciannovenne Dasha che studia negli Stati Uniti e sembra aver accettato con grande maturità le conseguenze della lotta del padre, nonostante l’ansia e la malinconia che emergono in alcune delle sue dichiarazioni.
L’atto finale del documentario segue Alexei Navalny dopo la decisione di tornare in patria, mostrando passo dopo passo il viaggio con destinazione Mosca mentre all’aeroporto i suoi sostenitori affrontano le autorità venendo arrestati, respinti e silenziati. La regia di Roher, con un sapiente montaggio che spazia dallo sguardo del protagonista in volo al suo team che assiste agli eventi seguendoli grazie ai telegiornali, non dà spazio alla speranza. L’arresto dell’avversario di Putin, nonostante la razionalità che porterebbe a confidare nella giustizia, è inevitabile mentre Alexei e la moglie cercano di rilassarsi guardando Rick and Morty o scherzano con gli altri viaggiatori chiedendo scusa per i problemi causati.
Il lavoro compiuto dal filmmaker risulta importante e necessario grazie alla sua capacità di equilibrare il lato umano, con le dimostrazioni di affetto nei confronti della moglie persino in tribunale, con quello politico e sociale e impone all’attenzione del pubblico internazionale la figura di un uomo disposto a lottare contro un regime autoritario condividendo un messaggio universale che merita di essere ascoltato, apprezzato e condiviso.
Ci sono film imperfetti che riescono, nonostante i loro difetti, a conquistare il cuore degli spettatori e diventare una di quelle opere che si ritorna a guardare più volte nella vita, ottenendo ogni volta lo stesso senso di calore e gioia. Cha Cha Real Smooth fa parte di questa categoria e, dopo la presentazione al Sundance Film Festival 2022, sarà interessante scoprire l’accoglienza che verrà riservata al progetto scritto, diretto e interpretato da Cooper Raiff con una distribuzione a livello internazionale.
Al centro della trama c’è il romantico e ingenuo, persino un po’ immaturo, Andrew (Raiff) che, dopo aver finito i suoi studi universitari si ritrova a tornare a vivere a casa della madre (Leslie Mann), dormendo sul pavimento nella stanza del fratello minore David (Evan Assante), e non risparmiando battute sarcastiche al patrigno Greg (Brad Garrett). Il giovane, che sperava di trovare un lavoro e raggiungere la ragazza che ama a Barcellona, si è invece alle prese con un deludente lavoro in un fast food. A dare una svolta alla sua vita è la scelta di accompagnare David a un Bar Mitzvah dove fa la conoscenza di Domino Dakota Johnson) e di sua figlia, affetta da autismo, Lola (Vanessa Burghardt). La simpatia e la sensibilità di Andrew riescono a conquistare l’attenzione della giovane, che viene emarginata e persino bullizzata dai suoi compagni di scuola, e della madre, oltre a fargli ottenere un lavoro part time come animatore proprio ai Bar Mitzvah dei compagni di scuola del fratello. L’incontro tra Domino, che è fidanzata con Joseph (Raul Castillo), porterà il protagonista a compiere un percorso personale in grado di farlo maturare e iniziare a capire cosa vuole realmente nella sua vita.
Raiff crea con il personaggio di Andrew un personaggio quasi in stile Charlie Brown: sfortunato in amore e nella vita, dall’onestà disarmante, a suo agio più con i ragazzi dell’età del fratello (come sottolinea in modo esilarante una scena nella parte finale del film che lo ritrae in macchina sul sedile posteriore tra i bambini), ancora incerto su cosa vuole nella vita e adorabilmente imperfetto. Il filmmaker è una vera e propria rivelazione in Cha Cha Real Smooth grazie alla sua capacità di creare un feeling realistico ed emozionante con tutti gli altri membri del cast. Cooper accanto a Dakota Johnson crea un misto di attrazione e amore platonico che rende ogni interazione tra i due magnetica e all’insegna di un sentimento dal destino apparentemente segnato fin dall’inizio, mentre con Vanessa Burghardt ed Evan Assante diventa un amico confidente che non tratta quasi mai con superiorità i ragazzini, nonostante la loro giovane età. Le scene con Leslie Mann, inoltre, sono particolarmente ben scritte e interpretate, rendendo credibile il rapporto madre-figlio, e nelle scene in cui è insieme ai coetanei il protagonista incarna tutte le incertezze di una generazione che sogna di cambiare il mondo, ma è bloccata in una realtà insoddisfacente che delude tutte le loro aspettative.
Il personaggio di Andrew, che sostiene l’intera narrazione, è stato scritto in modo davvero brillante e intelligente grazie all’equilibrio tra pregi e difetti. Gli spettatori non si trovano così di fronte a un principe azzurro pronto a difendere i più deboli dall’alto di una sua superiorità fisica e morale, ma un ragazzo normale che perde la pazienza quando ha una giornata storta, beve troppo, non è nemmeno particolarmente bravo a letto, ma è un amico vero, fedele, leale e con un animo romantico che gli permette di provare empatia ed entrare in sintonia con il prossimo. Dakota Johnson, dopo The Lost Daughter, torna a interpretare una madre e riesce a delineare una giovane donna vulnerabile e alle prese con incertezze e dubbi. Le scene in cui Domino si confida con Andrew fanno emergere con piccoli sguardi e silenzi tutti i dubbi di una persona diventata madre molto presto e che da tempo sta affrontando responsabilità e l’ansia di essere abbandonata e affrontare nuovamente da sola gli ostacoli quotidiania.
Cha cha real smooth si allontana dagli stereotipi e le strade già percorse dalle commedie romantiche per offrire un approccio più realistico, e per questo così emozionante, al significato dell’amore nelle varie fasi della vita, sulle conseguenze delle scelte che compiamo ogni giorno e sull’importanza della resilienza e della forza d’animo che ci spinge ad andare avanti anche nei momenti difficili. La riflessione sul concetto dell’anima gemella, il passaggio da un’idea di amore totalmente ideale e simile alle favole a quello reale, e per questo imperfetto, e un epilogo senza sbavature impongono all’attenzione il talento di Cooper Raiff, un nome sicuramente da tenere d’occhio nei prossimi anni.
Il film si concede il tempo di far compiere a tutti i protagonisti un’evoluzione naturale e mai forzata, contraddistinta da un passo in avanti e tanti indietro, facendo ridere, commuovere e riflettere senza mai risultare stucchevole, prevedibile o banale. La sceneggiatura ha più di un punto debole, in particolare nella gestione della figura materna e dei suoi problemi, ma il risultato è una storia semplice e al tempo stesso unica, impreziosita da una colonna sonora accativante e da tanti momenti di leggerezza che rendono la visione davvero piacevole e scorrevole, elementi che rendono Cha cha real smooth un’opera destinata a entrare di diritto nella lista dei titoli da non perdere in questo 2022.
James Ponsoldt, autore di opere interessanti come The Spectacular Now e la serie Sorry for your Loss, firma con Summering un racconto leggero e che porta sullo schermo l’avventura estiva di un gruppo di ragazzine che stanno per addentrarsi nell’adolescenza, consapevoli che un periodo importante della loro vita sta per concludersi. Dopo il flop di The circle, il filmmaker firma così una storia semplice, forse fin troppo, che regala comunque qualche sorriso e delle ottime interpretazioni da parte del cast di tutte le età.
Dina, Lola, Daisy, e Mari (Lia Barnett, Madalen Mills, Eden Grace Redfield, e Sanai Victoria ) stanno vivendo insieme gli ultimi giorni dell’estate prima di iniziare la scuola media e, mentre cercano di godersi gli ultimi momenti di libertà, si imbattono inaspettatamente in un cadavere di uno sconosciuto. Temendo di essere costrette a trascorrere le ultime giornate estive rispondendo alle domande dei poliziotti e sotto osservazione da parte delle loro madri che potrebbero pensare che siano traumatizzate, le protagoniste decidono di non dire nulla e indagare sull’identità dell’uomo, provando anche a capire cosa gli è accaduto. La loro indagine, tuttavia, le porterà a capire qualcosa in più su se stesse e avvicinerà inaspettatamente le loro madri, arrivando a un epilogo che farà emergere i loro desideri nascosti e celebrerà la loro forza interiore.
Impossibile non pensare a Stand by Me, paragone comunque troppo penalizzante nei confronti dell’opera, durante la visione di Summering che, con un elemento sovrannaturale non del tutto giustificato e alcune sequenze “magiche”, trova la sua forza nelle interazioni tra madri e figlie e tra le ragazzine. Le giovanissime interpreti sono davvero brave e convincenti e Lia Barnett, in particolare, si distingue con un’espressività e una maturità che vanno oltre la sua età anagrafica nelle scene in cui Daisy affronta i problemi in famiglia. Le sue colleghe sono però altrettanto convincenti e naturali, non risultando mai sopra le righe nelle loro reazioni ed espressioni. Ad affiancarle nel ruolo delle madri ci sono Megan Mullally, che suscita la voglia di scoprire qualche dettaglio in più sul suo personaggio grazie alla gran quantità di sfumature che riesce a infondere in una presenza piuttosto limitata sullo schermo, Lake Bell che propone un mix di austerità e sensibilità, Sarah Cooper e Ashley Madekwe, altrettanto brave nel relazionarsi con le rispettive “figlie”.
Il film non faticherà a conquistare gli spettatori più giovani e le famiglie grazie al realismo con cui tratteggia i dubbi e le ansie che contraddistinguono i primi passi verso l’età adulta, suscitando al tempo stesso un po’ di nostalgia per la spensieratezza vissuta nell’infanzia. Ponsoldt sembra essere riuscito a sfruttare al meglio una sceneggiatura, firmata da Benjamin Percy, che in più momenti perdi di vista i propri obiettivi introducendo elementi e situazioni non essenziali alla narrazione, e Summering risulta una visione davvero piacevole che sfiora le corde dell’anima degli spettatori, senza lasciare però realmente il segno.
Il regista Lázaro Ramos, al suo esordio alla guida di un lungometraggio, propone con Executive Order, presentato al Pan African Film Festival, un racconto ambientato in una società distopica in cui in Brasile prende il potere un governo autoritario che decide di imporre a tutti i cittadini che discendono da famiglie africane di abbandonare la nazione, situazione che causa caos, morte e la nascita di un movimento che cerca di resistere e opporsi alle nuove regole. Alfred Enoch interpreta un avvocato, Antonio, che sembra avere davanti a sé un futuro sereno accanto alla moglie Capitu (Taís Araújo), ma si ritrova diviso dalla donna che ama e costretto a nascondersi nel proprio appartamento insieme al cugino, il giornalista Andre (Seu Jorge), con cui inizia a ribellarsi alle autorità e trasmettere video di protesta che attirano l’attenzione dei media e della popolazione, anche a livello internazionale. Capitu, nel frattempo, trova rifugio in un “afro-bunker” dove si nascondono molti cittadini di origine africana e si inizia a gettare le basi della resistenza.
Executive Order non sfrutta nel modo migliore il proprio potenziale e la struttura narrativa appare suddivisa in parti eccessivamente separate tra loro, proponendo fin troppi spunti e sottotrame che rendono l’insieme piuttosto confuso e incerto. Uno degli elementi più convincenti è la gestione degli aspetti emotivi della vicenda e grazie a un’ottima performance di Enoch e di Araújo si viene coinvolti nelle loro reazioni al caos che li circonda, tra tentativi di mantenere la propria umanità e disperazione nel constatare che il proprio futuro sembra sia stato spazzato via per sempre. Il rapporto tra i personaggi non è sviluppato del tutto in modo adeguato, rendendo i passaggi maggiormente drammatici non all’altezza delle aspettative e gli elementi sociali e politici sono delineati fin troppo a grandi linee per rendere il contesto realistico e credibile. Executive Order riesce però a sfruttare a proprio favore un atto conclusivo ben costruito sulle basi di un paio di scene di grande impatto emotivo.
Il film di Ramos paga forse più del dovuto il prezzo dell’ambizione che contraddistingue il progetto, non trovando il giusto equilibrio tra commento sociale e dramma personale, tuttavia la bravura di Enoch e un paio di sequenze memorabili rendono la visione un’esperienza interessante e stimolante.
Il regista e sceneggiatore Muzi Mthembu propone con African American, presentato al Pan African Film Festival, un racconto al femminile di sogni che si scontrano con i limiti di una società, maschilista e in più occasioni razzista, problemi economici e le tradizioni culturali della famiglia in cui è cresciuta, in cui desideri come quello di lavorare nel campo dello spettacolo non sono visti di buon occhio. Al centro della trama c’è Nompumelelo (Phumi Mthembu) che, dopo aver accettato un matrimonio combinato per aiutare la sua famiglia, scopre che era stata accettata come studentessa alla Julliard, la prestigiosa scuola d’arte, ma il padre le aveva nascosto la lettera di ammissione, facendole credere di non avere alcuna concreta possibilità di iniziare una carriera come cantante o attrice. La giovane decide quindi di lasciarsi alle spalle una vita che le sta stretta e partire con destinazione New York, subendo le conseguenze della sua ribellione. In suo aiuto, tuttavia, entra in scena Jaquan (Anthony Goss) con cui si stabilisce un rapporto complicato e non privo di conflitti.
African America riesce, inizialmente, a sviluppare bene le tematiche alla base della storia offrendo un ritratto significativo ed emozionante delle difficoltà che affrontano i giovani nati negli Stati Uniti, ritrovandosi divisi tra le proprie origini e un mondo diverso da quello in cui sono cresciuti i propri genitori e nonni. Phumi Mtembu possiede il carisma giusto per trasportare gli spettatori in una quotidianità complicata dal punto di vista emotivo e psicologico e coinvolgerli mentre si assiste ai rifiuti che riceve, alle ingiustizie subite e ai ricatti morali che deve affrontare. Il problema del film, tuttavia, è una sceneggiatura che nella seconda parte del racconto perde compattezza ed esagera portando situazioni ed emozioni sopra le righe e non trovando il modo di far evolvere la storia senza mai perdere il realismo che sembrava caratterizzarlo. Il cast in più momenti fatica a non scivolare in interpretazioni fin troppo melodrammatiche, pur riuscendo a gestire bene i passaggi maggiormente dedicati ai tentativi di trovare il proprio posto nel mondo, a livello personale e professionale.
Un montaggio con meno passaggi a vuoto dal punto di vista narrativo avrebbe forse aiutato il film, che lascia invece la sensazione di ritrovarsi di fronte a un’opera promettente su cui sarebbe necessario lavorare ancora un po’.
Zack Snyder’s Justice League è finalmente arrivato e la visione delle quattro ore che compongono la versione ideata inizialmente dal regista si conferma come un importante passo in avanti rispetto ai precedenti progetti della DC, facendo però emergere due problematiche: l’assenza di un progetto concreto relativo alla realizzazione della continuazione della storia suscitando ancora più dispiacere rispetto a quello provato dopo aver assistito ai problemi di quanto proposto sugli schermi nel 2017, e la consapevolezza che se i vertici di Warner Bros avessero voluto un cinecomic della durata intorno alle due ore, come svelato da numerose indiscrezioni, il materiale girato inizialmente era quasi impossibile da gestire, rendendo quindi comprensibile la scelta del team di Joss Whedon di trasformare radicalmente il racconto.
Nel 2017 uno dei problemi più grandi di Justice League era legato al fatto che gli spettatori non conoscevano abbastanza i personaggi per potersi lasciare coinvolgere nella prima avventura del team creato da Batman e il nuovo film dimostra che era possibile risolvere la questione sacrificando, però, una durata considerata adatta al proprio target e alle esigenze degli spettatori. Mantenere il materiale realizzato da Zack Snyder senza suddividerlo in due lungometraggi (con un cliffhanger ad esempio sul ritorno di Superman) avrebbe, quasi sicuramente, portato a un risultato persino peggiore del tanto discusso Batman v Superman: Dawn of Justice che aveva infatti guadagnato in chiarezza e profondità con l’Ultimate Edition che comprendeva scene tagliate dal montaggio distribuito nei cinema. Pensare di proporre un racconto coerente e convincente tagliando la metà di quanto mostrato in questa nuova versione di Justice League sarebbe stato un ulteriore passo falso rendendo la costruzione delle storie dei protagonisti, l’introduzione dei villain e delle loro motivazioni, e lo scontro finale inevitabilmente affrettati, approssimativi, superficiali e insoddisfacenti. Warner Bros poteva distibuire nelle sale un lungometraggio di quattro ore? A posteriori è impossibile avere una risposta, ma è innegabile che il progetto rappresenti una proposta quasi perfetta per una piattaforma di streaming come HBO Max e, se si trovasse un accordo relativo al budget e si avesse il sostegno delle star, potrebbe dare il via a un progetto ambizioso e coraggioso continuando lo Snyderverse e rendendo giustizia ai personaggi ormai delineati e permettendo ai loro interpreti, in particolare a Henry Cavill e al suo Superman, di concludere l’esperienza sugli schermi nel migliore dei modi.
Zack Snyder’s Justice League non è un film privo di difetti e chi non ama lo stile del suo realizzatore difficilmente riuscirà ad amare anche questa sua nuova fatica, tuttavia riesce a delineare davvero bene i “nuovi” arrivi nel DCEU rappresentati da Flash eCyborg, e a dare nuove sfumature a figure ormai conosciute dagli spettatori come Wonder Woman e Aquaman. Lo spazio dedicato a ognuno degli eroi è finalmente adeguato per permettere agli spettatori di seguire la narrazione comprendendo le motivazioni di ognuno di loro, le differenze esistenti tra i membri della Justice League e i loro punti in comune. Le tematiche del rapporto tra genitori e figli, già centrale in L’uomo d’acciaio, e della ricerca del proprio posto nel mondo diventano in questo caso essenziali e Snyder le sviluppa in modo esaustivo ed emozionante, sfruttando in particolare la presenza di Cyborg e il maggior spazio dato a figure chiave come quella di Alfred, interpretato in modo magistrale da Jeremy Irons. Ezra Miller e Ray Fisher, in questa versione, hanno finalmente modo di non rimanere in secondo piano rispetto al trio composto da Superman-Batman-Wonder Woman che era già stato introdotto nei lungometraggi precedenti e nemmeno di essere messi in ombra a causa della carismatica e imponente presenza di Jason Momoa nel ruolo di Aquaman. La narrazione ha i suoi momenti fin troppo retorici e al limite dello stucchevole, come l’interazione tra Diana e una ragazzina che viene salvata durante un attacco terroristico, ma la sceneggiatura di Chris Terrio riesce a trovare l’umanità anche nei villain come Steppenwolf, meno undimensionale e più minaccioso rispetto a quanto proposto in precedenza. Gli appassionati dei fumetti, quasi sicuramente, troveranno alcune scelte e svolte discutibili, e non mancano i momenti forzati. L’insieme è però godibile e trova un buon equilibrio tra intrattenimento, grazie anche al Barry Allen interpretato da Miller che propone una ventata di leggerezza sopra le righe e inaspettatamente ben calibrata nel contesto, e capacità di offrire spunti di riflessione sul significato di eroismo, sacrificio, seconde occasioni e sulle conseguenze delle perdite subite nella propria vita. La colonna sonora di Junkie XL, attingendo anche ai temi creati per gli altri film del DCEU, accompagna con una certa bravura l’evolversi della storia enfatizzando il ritmo delle sequenze d’azione, a tratti fin troppo elaborate ed enfatiche, e amplificando le emozioni dei momenti più personali. La fotografia firmata da Fabian Wagner e il formato scelto contribuiscono a mantenere il tratto distintivo di Snyder che contraddistingue il suo approccio al genere cinematografico.
Il cast, senza una storia “mutilata”, si dimostra all’altezza delle aspettative e, pensando al futuro degli adattamenti dei fumetti della DC in fase di sviluppo per Warner, l’elemento che causa maggior dispiacere è l’idea che si abbandonerà totalmente questa versione di Superman. Henry Cavill, nelle parti del film in cui appare, dimostra infatti di essere maturato come attore e di aver costruito un Clark Kent non privo di lati inaspettati, gettando in poche scene, in cui ruba la scena ai suoi colleghi, le basi per una storia del supereroe che avrebbe il potenziale per distinguersi in positivo all’interno del panorama dei cinecomic. Non sfruttare la possibilità di sviluppare le storie di varie versioni del personaggio usando lo stratagemma del multiverso già proposto con le serie televisive tratte dai fumetti della DC, rendendo quindi accettabile l’esistenza di più di vari Batman, Superman e Joker, considerando che Jared Leto riesce finalmente a non risultare una caricatura nell’iconico ruolo nei pochi minuti in cui appare, sarebbe un’occasione sprecata. Clark Kent risulta la colonna portante dello Snyderverse e il personaggio meriterebbe un degno epilogo alla sua storia, a prescindere che questo venga proposto sul grande schermo o su una piattaforma di streaming. La storia di Kal-El, così umano nonostante la sua origine aliena e ritornato in vita per dare speranza all’umanità e onore al popolo di Krypton, poteva davvero essere una delle carti vincenti del DCEU.
La visione di Zack Snyder’s Justice League conferma infine uno dei dubbi che erano da tempo emersi: la costruzione di un universo cinematografico ha bisogno di tempo prima di riuscire realmente a conquistare il proprio pubblico. Non è infatti da escludere che i film usciti nelle sale dedicati a Wonder Woman e Aquaman, ma in parte persino quasi flop come Suicide Squad o indirettamente il successo di Joker, abbiano contribuito a creare un’attenzione e un coinvolgimento maggiore nei confronti dei personaggi e delle loro storie. Le quattro ore che compongono Zack Snyder’s Justice League, sfruttando comunque la suddisvisione in parti che permette di compiere delle utili pause, non risultano così mai noiose e anche i difetti appaiono meno penalizzanti, lasciando l’impressione, arrivati nella già famosa sequenza ambientata nel Knightmare realizzata appositamente dopo l’approvazione ottenuta da HBO Max, di uno spettacolo finalmente in grado di usare a proprio favore gli elementi che hanno portato al successo i fumetti della DC. I titoli di coda, accompagnati da una struggente cover di Hallelujah, suscitano un insieme di malinconia, catarsi e attesa per capire se si tratta di un lieto fine per Zack Snyder e il suo team, il cui lavoro è stato finalmente ripagato, o a sorpresa un nuovo inizio per i film degli eroi, e dei villain come Deathstroke e Joker, della DC.
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