Watcher, nonostante un budget non particolarmente elevato e una colonna sonora a tratti invadente, propone un thriller che riesce nel suo scopo di mantenere alta la tensione dall’inizio alla fine.
Chloe Okuno compie il suo esordio alla regia firmando una storia dall’atmosfera quasi claustrofobica nel seguire la giovane Julie (Maika Monroe) dopo il suo arrivo in Romania insieme all’amato Francis (Karl Glusman) ce ha accettato un nuovo lavoro. La ragazza non conosce la città, la lingua e non ha alcuna amicizia a Bucarest. Il senso di solitudine si trasforma in crescente angoscia quando la ragazza inizia a pensare di essere continuamente osservata e seguita da un uomo che vive nell’edificio di fronte al suo. Francis, inizialmente, tiene seriamente in considerazione la sua preoccupazione per poi convincersi che si tratti solo del frutto della sua immaginazione. Julie cerca però di chiarire quanto sta accadendo seguendo il suo presunto stalker, e convidandosi con la sua vicina Irina (Madalina Anea), l’unica che continua a crederle e non pensa sia influenzata dalle notizie riguardanti un serial killer che sta uccidendo le donne in città.
La fotografia firmata da Benjamin Kirk Nielsen costruisce un’atmosfera fredda e rarefatta che sostiene bene l’alone di mistero che circonda la storia della protagonista, mantenendo il dubbio riguardante la possibilità che si tratti di paranoia o che ci sia qualcosa di vero nelle sue paure.
La sceneggiatura firmata da Zack Ford prosegue senza tentennamenti nel suo alternare l’idea di osservatore e oggetto dell’ossessione altrui, sfruttando lo sguardo di Maika Monroe che fa emergere nel suo sguardo la sua angoscia e al tempo stesso determinazione.
Senza particolari sorprese, ma giocando bene le sue carte, Watcher propone un thriller che soddisfa gli appassionati del genere sfruttando l’idea di isolamento e solitudine che vive la protagonista.
Emma Thompson regala con Good Luck to You, Leo Grande una delle migliori interpretazioni della sua carriera portando sugli schermi un personaggio femminile attuale e necessario nel panorama cinematografico. La sceneggiatura firmata da Katy Brand conquista e sembra fin dall’inizio quasi un’opera teatrale in grado di usare i dialoghi per raccontare una storia al femminile all’insegna della scoperta di se stessa e della propria sessualità. L’attrice ha infatti la parte di un’insegnante rimasta vedova, che si fa chiamare Nancy Stokes, che decide di assumere un escort, Leo Grande (Daryl McCormack), per avere per la prima volta nella sua vita un orgasmo.
Il film diretto da Sophie Hyde è costruito proponendo i vari incontri tra i due, passando da insicurezze a imbarazzi alla progressiva conoscenza che li porta ad aprirsi e confrontarsi sui propri desideri e sulle esperienze di vita. Nancy affronta sensi di colpa, la quasi inesistente autostima nel guardarsi allo specchio e la consapevolezza di non avere quasi nessuna esperienza dal punto di vista sessuale. Leo, invece, assume quasi un ruolo da terapista, stabilendo però delle regole ben precise per quanto riguarda le sue interazioni con la cliente. I dialoghi, scritti in modo brillante e realistico, sostengono l’evolversi del rapporto tra Leo e Nancy che non appare mai forzato e nemmeno stereotipato, allontanandosi da ogni possibile rappresentazione all’insegna della frustrazione o dello sfruttamento.
Il feeling che si stablisce tra Thompson e McCormack appare perfetto per reggere la narrazione che alterna seduzione, fragilità e scoperta di se stessa e del potere del piacere nel trovare il giusto equilibrio nella propria vita. L’atto finale del film, con un significativo confronto con un’ex studentessa, avrebbe forse bisogno di un passaggio intermedio per giustificare la scelta di Leo di confrontarsi nuovamente con Nancy, tuttavia il grande talento di Emma Thompson e la bravura della regista non fanno scivolare mai le situazioni nel cattivo gusto o nella prevedibilità, confezionando una storia di maturazione e crescita personale che non si rivolge solo a un pubblico femminile e di mezza età, proponendo riflessioni e situazioni universali.
Fiabe come Hansel e Gretel e Pollicino, senza dimenticare il lupo cattivo di Cappuccetto Rosso, fin dall’infanzia hanno introdotto nella mente dei bambini l’idea dell’orco, del lupo cattivo pronto a mangiare l’innocente di turno. Fresh, l’opera prima della regista Mimi Cave, ne propone ora una versione riveduta e aggiornata al femminile delineando una lotta per la sopravvivenza contro una presenza maschile all’insegna della manipolazione e che porta all’estremo il concetto di donna oggetto.
Il film inizia come una classica commedia romantica: Noa (Daisy Edgar-Jones) è alle prese con appuntamenti deludenti e relazioni destinate a concludersi ancora prima di iniziare. A cambiare la situazione è l’incontro fortuito in un supermercato con Steve (Sebastian Stan), un chirurgo plastico che la conquista con il suo umorismo, attenzioni e capacità di farla sentire a proprio agio. La sua migliore amica Mollie (Jojo T. Gibbs) pensa che ci sia qualcosa di strano in quell’uomo apparentemente perfetto, ma questo non frena Noa davanti alla possibilità di trascorrere con lui un weekend romantico in mezzo alla natura senza poter sapere l’orrore che dovrà affrontare.
La sceneggiatura di Lauryn Kahn costruisce bene il cambio di registro e la regia di Cave è davvero attenta ed efficace nella sua costruzioni di immagini disturbanti e dallo stile affascinante, quasi ipnotizzante in certi passaggi. Il punto debole dell’opera è tuttavia nel modo in cui i vari atti si svolgono con un ritmo e una veridicità poco costanti, arrivando a un epilogo affrettato dopo un costruzione narrativa ben cadenzata e che si concede il tempo giusto per dare sostanza ai personaggi principali.
A essere promossi a pieni voti sono però i due protagonisti di Fresh. La rivelazione di Normal PeopleDaisy Edgar-Jones riesce a dare intensità e credibilità alla disperazione e alla resilienza, anche nei momenti più difficili, di Noa. L’evoluzione da giovane un po’ ingenua a manipolatrice alla pari del suo carnefice è ben costruita e gestita dall’attrice che infonde in egual misura vulnerabilità e forza al suo personaggio. Sebastian Stan si conferma poi come uno degli attori più coraggiosi della sua generazione mettendosi alla prova, dopo la parte di Tommy Lee nella serie Pam & Tommy in arrivo a febbraio, con una parte estrema che riesce a mantenere “umana” nonostante la sua mostruosità e mancanza di morale. La preparazione dell’attore è evidente nei gesti e nelle piccole sfumature che rendono Steve uno psicopatico carismatico e totalmente convinto di essere “normale”. I personaggi secondari, dalla migliore amica alla moglie del protagonista, avrebbero forse avuto bisogno di maggior spazio per risultare essenziali e utili alla narrazione, tuttavia il lungometraggio riesce a catturare l’attenzione con il suo portare all’estremo una società in cui le donne fanno ancora i conti con uomini che le considerano inferiori e da sfruttare a proprio piacimento, quasi fossero di loro proprietà. Pur non essendo del tutto memorabile, Fresh farà sicuramente parlare per le performance del suo cast, per il talento della regista e per un racconto provocatorio e in più momenti destinato a un pubblico dallo stomaco forte.
James Ponsoldt, autore di opere interessanti come The Spectacular Now e la serie Sorry for your Loss, firma con Summering un racconto leggero e che porta sullo schermo l’avventura estiva di un gruppo di ragazzine che stanno per addentrarsi nell’adolescenza, consapevoli che un periodo importante della loro vita sta per concludersi. Dopo il flop di The circle, il filmmaker firma così una storia semplice, forse fin troppo, che regala comunque qualche sorriso e delle ottime interpretazioni da parte del cast di tutte le età.
Dina, Lola, Daisy, e Mari (Lia Barnett, Madalen Mills, Eden Grace Redfield, e Sanai Victoria ) stanno vivendo insieme gli ultimi giorni dell’estate prima di iniziare la scuola media e, mentre cercano di godersi gli ultimi momenti di libertà, si imbattono inaspettatamente in un cadavere di uno sconosciuto. Temendo di essere costrette a trascorrere le ultime giornate estive rispondendo alle domande dei poliziotti e sotto osservazione da parte delle loro madri che potrebbero pensare che siano traumatizzate, le protagoniste decidono di non dire nulla e indagare sull’identità dell’uomo, provando anche a capire cosa gli è accaduto. La loro indagine, tuttavia, le porterà a capire qualcosa in più su se stesse e avvicinerà inaspettatamente le loro madri, arrivando a un epilogo che farà emergere i loro desideri nascosti e celebrerà la loro forza interiore.
Impossibile non pensare a Stand by Me, paragone comunque troppo penalizzante nei confronti dell’opera, durante la visione di Summering che, con un elemento sovrannaturale non del tutto giustificato e alcune sequenze “magiche”, trova la sua forza nelle interazioni tra madri e figlie e tra le ragazzine. Le giovanissime interpreti sono davvero brave e convincenti e Lia Barnett, in particolare, si distingue con un’espressività e una maturità che vanno oltre la sua età anagrafica nelle scene in cui Daisy affronta i problemi in famiglia. Le sue colleghe sono però altrettanto convincenti e naturali, non risultando mai sopra le righe nelle loro reazioni ed espressioni. Ad affiancarle nel ruolo delle madri ci sono Megan Mullally, che suscita la voglia di scoprire qualche dettaglio in più sul suo personaggio grazie alla gran quantità di sfumature che riesce a infondere in una presenza piuttosto limitata sullo schermo, Lake Bell che propone un mix di austerità e sensibilità, Sarah Cooper e Ashley Madekwe, altrettanto brave nel relazionarsi con le rispettive “figlie”.
Il film non faticherà a conquistare gli spettatori più giovani e le famiglie grazie al realismo con cui tratteggia i dubbi e le ansie che contraddistinguono i primi passi verso l’età adulta, suscitando al tempo stesso un po’ di nostalgia per la spensieratezza vissuta nell’infanzia. Ponsoldt sembra essere riuscito a sfruttare al meglio una sceneggiatura, firmata da Benjamin Percy, che in più momenti perdi di vista i propri obiettivi introducendo elementi e situazioni non essenziali alla narrazione, e Summering risulta una visione davvero piacevole che sfiora le corde dell’anima degli spettatori, senza lasciare però realmente il segno.
John Boyega dimostra una grande maturità con la sua interpretazione nel film 892, ispirato alla storia vera di Brian Brown-Easley. Abi Damaris Corbin, che ha firmato la sceneggiatura insime a Kwame Kwei-Armah, ha attinto all’articolo di Aaron Gell They Didn’t Have to Kill Him per raccontare una storia di disperazione e mancanza di sostegno da parte delle autorità. Al centro della trama c’è un ex marine che si è visto negare il suo assegno di disabilità mensile, che ammonta ai 892 dollari che danno titolo al progetto, e si ritrova alle prese con frustrazione, rabbia e angoscia nel pensare al futuro della figlia. Brian decide quindi di entrare in una banca e cercare di ottenere l’attenzione dei media avvicinandosi a una cassiera, Rosa Diaz (Selenis Leyva), e scrivendo un biglietto in cui sostiene di avere una bomba. L’obiettivo dell’uomo non è però compiere una rapina e lascia uscire tutti dalla struttura, con l’eccezione di Rosa e di un’altra dipendente, Estel Valerie (Nicole Beharie). Brian cerca, inutilmente, di ottenere la visibilità che pensa di meritare e contatta la reporter Lisa Larson (Connie Britton). Le autorità, invece, sembrano essere divise sull’approccio da seguire: Eli Bernard (Michael Kenneth Williams) vorrebbe negoziare e raggiungere una conclusione pacifica, mentre la polizia non sembra disposta ad ascoltare le motivazioni dell’uomo coinvolgendo anche la moglie di Brian, Cassandra (Olivia Washington), che si ritrova a vivere l’esperienza insieme alla figlia Kiah (London Covington) interagendo con persone apparentemente prive di empatia.
Boyega è convincente in ogni momento della drammatica storia, dalla tenerezza con cui interagisce nei flashback e nelle telefonate con Kiah, agli attimi in cui perde totalmente il controllo a causa della crescente frustrazione nel sentirsi ignorato, sottovalutato e sminuito come essere umano dopo essere stato a lungo a servizio della nazione. L’attore britannico passa dall’estrema vulnerabilità a una rabbia minacciosa, oltre a essere davvero intenso nella scena in cui Brian ammette di essere già consapevole di quale sarà l’epilogo della situazione. Accanto a lui Leyva e Beharie sono altrettanto brave nel delineare due donne divise tra l’empatia che provano nei confronti dell’uomo e il terrore di subire le drammatiche conseguenze delle sue scelte. Michael Kenneth Williams, nonostante la presenza limitata sullo schermo, è in grado di tratteggiare una presenza sensibile in un contesto spietato e poco attento ai bisogni del prossimo e la sua performance ricorda il talento del compianto attore. La naturalezza e simpatia di London Covington aggiunge un po’ di leggerezza all’intensa storia, mentre Connie Britton e il resto del cast impegnato nelle scene nella redazione non lasciano purtroppo il segno, tuttavia l’attenzione di Corbin alla regia valorizza le performance di tutti gli interpreti.
Il montaggio di Chris Witt, che intreccia anche dei brevi significativi flashback a ciò che accade all’interno della banca, mantiene alta la tensione fino all’epilogo amaro che fa riflettere sull’assistenza che viene fornita ai veterani al loro ritorno a casa, argomento molto attuale e importante. 892 sfrutta a proprio favore la memorabile performance di Boyega per proporre una storia che merita di essere raccontata e conosciuta.
Jesse Eisenberg si mette alla prova come regista di un lungometraggio con When You Finish Saving the World e le ottime interpretazioni del cast riescono a mettere in secondo piano alcuni difetti nella gestione della narrazione. Juliane Moore interpreta nel film Evelyn Katz, a capo del rifugio per donne in difficoltà Spruce Haven, mentre la star di Stranger ThingsFinn Wolfhard ha il ruolo di Ziggy, il figlio della donna che trascorre le sue giornata componendo canzoni e cercando di conquistare il cuore di una sua compagna di scuola, parte affidata ad Alisha Boe, molto coinvolta dal punto di vista politico e sociale. Ziggy, invece, teme che condividere delle posizioni politiche durante le sue dirette sulla piattaforma HitHat potrebbe causargli qualche problema con i suoi 20.000 follower, cifra che ama ripetere con estremo orgoglio a chiunque, provenienti da tutto mondo. Madre e figlio sembrano incapaci di comunicare tra loro, dando vita a incomprensioni e a una freddezza che contraddistingue il loro rapporto. Evelyn prova quindi a soddisfare il suo istinto materno occupandosi di Kyle (Billy Bark), il brillante figlio di un’ospite della struttura, mentre Ziggy si evolve grazie al confronto con l’amata Lila. Entrambi non sembrano però in grado di trovare in famiglia quel tassello mancante nella propria esistenza di cui sentono la mancanza, provando a colmare quel vuoto altrove.
Eisenberg, regista e sceneggiatore del progetto, mette molto di se stesso e dei ruoli avuti durante la sua carriera nella personalità dei protagonisti e nella prospettiva un po’ distaccata e cinica alla vita. Julianne Moore è davvero brava nell’interpretare una donna che si occupa di persone in difficoltà, pur apparentemente non entrando in connessione emotiva con le donne che la considerano la responsabile della loro salvezza. Il personaggio di Evelyn, con le sue difficoltà nel relazionarsi con Ziggy e al tempo stesso la voglia di essere una madre presente, risulta realistico anche nei momenti in cui compie degli errori apparentemente incomprensibili per una donna nella sua situazione. Bryk, nonostante una minore espressività, regge davvero bene il confronto con l’esprienza dell’attrice nelle conversazioni tra i loro due personaggi e le scene con Evelyn e Kyle, come quella al ristorante, fanno emergere il lato meno intransigente e sensibile della protagonista. Wolfhard è altrettanto bravo nel tratteggiare un teenager alla ricerca della propria identità e consapevole della propria mancanza di preparazione e attenzione per le tematiche sociali, oltre a offrire la giusta dose di insicurezza tipica degli anni dell’adolescenza.
When You Finish Saving the World riesce con bravura a proporre la storia di due persone narcisiste che faticano a entrare in connessione con il prossimo, ma la narrazione ha più di un momento debole e passaggio a vuoto. L’ipocrisia che contraddistingue le azioni e la vita dei protagonisti è gestita bene, tuttavia la presenza fin troppo superficiale del padre e marito Roger (Jay O. Sanders), e l’eccessiva stereotipizzazione dei personaggi secondari, tra giovani attiviste e teenager destinati a un futuro segnato dalla realtà in cui sono cresciuti, non permettono al film di lasciare sempre il segno. Visivamente il film, grazie all’ottimo lavoro del direttore della fotografia Benjamin Loeb, crea un’atmosfera ben in linea con le emozioni dei personaggi. La narrazione si evolve invece in modo a tratti poco scorrevole fino a un epilogo inevitabile e prevedibile, seppur soddisfacente. Sospeso tra Lady Bird e un racconto in stile Woody Allen, l’esordio di Jesse Eisenberg dimostra il promettente potenziale dieto la macchina da presa dell’attore e sarà interessante scoprire se si metterà alla prova con atmosfere e racconti di diverso genere.
La vita di Diana Spencer è tornata protagonista sul piccolo e grande schermo negli ultimi anni, tra serie come The Crown e il film di Pablo Larraín con star Kristen Stewart, e ora il documentario The Princess sceglie un approccio totalmente nuovo, e molto efficace, agli eventi che hanno preso il via dopo il fidanzamento con il principe Carlo. Il regista Ed Perkins ha infatti scelto di usare esclusivamente materiali d’archivio, ripercorrendo quanto accaduto tramite la prospettiva di un osservatore esterno, sottolineando in questo modo il ruolo avuto dai mezzi di comunicazione nel delineare un personaggio che è stato amato, criticato, giudicato e poi trasformato in un’icona dall’opinione pubblica.
The Princess si apre con un significativo filmato che mostra l’attenzione dei paparazzi e delle persone comuni alla presenza di Diana a Parigi, poche ore prima della sua morte quando, fuori dall’hotel Ritz, c’era un muro umano pronto a immortalare l’ex moglie di Carlo o vederne rapidamente il volto. Il film ritorna poi ai primi momenti in cui i media hanno iniziato a rivolgere la propria attenzione nei confronti della giovane che sembrava aver conquistato il cuore dell’erede al trono britannico. Assistere all’evoluzione della sua relazione con Carlo, sapendone già la sua drammatica conclusione, obbliga a riflettere sul modo in cui la realtà diventa automaticamente finzione nel momento in cui le persone iniziano a interpretare, analizzare e commentare ogni comportamento, espressione e gesto compiuto in pubblico. Il documentario, pur offrendo un esaustivo riepilogo di quanto accaduto, mostra infatti una giovane trasformata in una principessa perfetta, con commenti legati alle favole e al suo atteggiamento innocente e timido, destinata a diventare la moglie ideale con la sua bellezza, le origini nobili e una personalità più vicina al popolo che alle rigide regole della famiglia reale. Passo dopo passo, tramite spezzoni di telegiornali e titoli dei quotidiani, si rivolge quindi lo sguardo verso un’attenzione che ha portato a un loop da cui apparentemente era impossibile uscire all’insegna della curiosità delle persone comuni nei confronti di una principessa ai loro occhi ideale e ricerca spasmodica di dettagli che potessero confermare questa visione o, al contrario, far emergere scandali perfetti per attirare ancora di più i lettori e gli spettatori. Il documentario non va alla ricerca di una “verità” legata a quanto stava accadendo nella vita reale, dando spazio in modo particolarmente efficace e coinvolgente a un paradosso che ha contraddistinto la vita di Diana: più emergevano elementi legati alla sua vita privata, con una totale mancanza di rispetto della privacy, più la sua esistenza diventava finzione, una creazione dei fan e dei giornalisti che si erano formati un’idea propria, scambiandola per verità.
Il documentario di Perkins non condanna e non giudica, pur facendo intendere tra le righe il punto di vista del filmmaker riguardante quanto accaduto, diventando una visione necessaria per meditare sulle conseguenze della fama e della popolarità. Il carisma e il fascino di Diana l’hanno resa inevitabilmente una vittima dell’attenzione degli altri e, nonostante i suoi tentativi di gestire a proprio favore in più momenti la stampa, è stata proprio lei a pagarne le conseguenze costringendo la società a meditare. The Princess risulta così davvero interessante per andare oltre le apparenze e capire quanto i singoli cittadini siano in parte responsabile della continua invasione della privacy delle celebrità, non solo dei membri della famiglia reale, considerandole erroneamente in base all’imagine che ognuno crea nella propria mente basandosi su notizie riportate e nessuna conoscenza diretta. Nel documentario c’è spazio anche a un momento in cui Sarah Ferguson ammette nel salotto televisivo di Oprah Winfrey di non essere a conoscenza di quanto stesse realmente accadendo nella vita della cognata, sottolineando che era stata molto brava nel non lasciar trapelare alcun dettaglio, eppure l’opinione pubblica era già stata pronta a giudicare condannare o salvare e si era sentita in diritto di esprimere opinioni e commenti. The Princess non aggiunge nulla alla conoscenza che si può avere di Diana Spencer, tuttavia dice molto sulla società in cui ha vissuto e dovrebbe far riflettere sulla direzione che bisognerebbe prendere per suscitare maggiore empatia e rispetto nei confronti del prossimo, celebrità comprese.
Caro Evan Hansen, dopo il successo ottenuto a Broadway, approda sul grande schermo con un film diretto da Stephen Chbosky (Noi siamo infinito, Wonder) che mette a frutto la sua sensibilità per adattare una storia non priva di insidie e che deve fare i conti con le difficoltà legate a un passaggio dal palco alle sale non sempre vincente. La presentazione al Toronto Film Festival (in Italia l’appuntamento è per la presentazione ad Alice Nella città in attesa della distribuzione ufficiale nei cinema il 2 dicembre) e il debutto negli Stati Uniti ha ottenuto un’accoglienza non del tutto positiva, ma a prescindere dal risultato finale non del tutto all’altezza del valore della produzione teatrale, la storia del giovane che soffre di ansia sociale, interpretato a teatro e sul set cinematografico da Ben Platt (The Politician) possiede tutti gli elementi necessari a rendere la visione utile, significativa e necessaria agli adolescenti, e non solo, per il modo in cui affronta in modo realistico, e a tratti persino cinico, le difficoltà quotidiane che le persone vivono nella società contemporanea.
Al centro della trama c’è il giovane Evan (Platt) che si ritrova, involontariamente, a essere coinvolto nella vita della famiglia di un suo compagno di classe, Connor (Colton Ryan), che si è tolto la vita. Il teenager, incapace di far soffrire ancora di più i genitori del teenager (Amy Adams e Danny Pino), finge di essere stato in segreto il miglior amico di Connor e, quella che inizialmente sembrava una bugia innocente, inizia ad avere delle conseguenze inaspettate, facendolo avvicinare a Zoe (Kaitlyn Dever), la ragazza dei suoi sogni, all’amico di famiglia Jared (Nik Dodani) che lo aiuta a creare una finta corrispondenza per mantenere la bugia, ad Alana (Amandla Stenberg) che coglie l’occasione per provare a fare la differenza tra i corridoi della scuola, e a se stesso, pur allontanandolo dalla madre Heidi (Julianne Moore), che da quando il padre di Evan li ha lasciati fa fatica a gestire la sua situazione di madre single che deve lavorare e prova in tutti i modi a sostenere un ragazzo sensibile e alle prese con l’ansia.
Il musical con le canzoni di Benji Pasek e Justin Paul è riuscito a trovare il modo di entrare in connessione con gli spettatori portando in scena una rappresentazione dura e realistica di cosa vuol dire provare a diventare adulti ed essere genitori in una società in cui la pressione sociale sta aumentando esponenzialmente grazie ai social media, in grado di promuovere iniziative positive e al tempo stesso, in molti casi, di minare profondamente l’autostima e la sicurezza di chi li utilizza, diventando una finestra in cui ci si propone al mondo spesso venendo totalmente ignorati o, ben peggio, criticati. Caro Evan Hansen pone al centro della propria storia proprio il bisogno di essere visti, ascoltati, notati e capiti che accomuna tutte le persone, a ogni età, dando spazio a come questo istinto umano possa avere un risvolto positivo creando empatia e legami e, al tempo stesso, rischiare di far sentire ancora più soli ed emarginati. Il racconto firmato dal duo Pasek e Paul con lo sceneggiatore Steven Levenson porta in scena un gruppo di personaggi che non diventano mai “eroi” e continuano a compiere errori, faticando a trovarare l’equilibrio in grado di tenerli a galla nonostante le tante difficoltà. Caro Evan Hansen ha il grande merito di rappresentare la fatica che, soprattutto i giovani, vivono nel tentativo di entrare a far parte di un gruppo e sentirsi accettati dai propri coetanei, spesso sacrificando nel complicato processo il compito ben più importante di trovare la propria identità e strada per un futuro sereno.
Il musical non propone mai modelli, ma persone a pezzi per vari motivi, dalla fine di un amore alle dipendenze, dall’ansia sociale alle liti in famiglia, e, soprattutto, ritraendo le insicurezze profonde che spesso si nascondono dietro un’apparente normalità e serenità.
Non ci sono adulti da prendere a esempio, non si dà spazio a teenager modelli di vita, non c’è spazio per insegnanti in grado di ispirare o leader da seguire, ma persone comuni e complicate che affrontano perdite, lutti, solitudini e istinti suicidi senza mai avere a portata di mano la risposta alle proprie domande, che sembra sempre sfuggente e sempre più lontana. Distanziandosi dai classici schemi dei racconti di formazione, le vicissitudini che affronta Evan sono un mix di sbagli animati da buone intenzioni e paure profonde, di cui non si comprende la portata fino a quando forse è troppo tardi. La rete complessa di relazioni e rimpianti che emergono progressivamente viene sostenuta da un’idea importante e che spesso viene trattata in modo stucchevole e stereotipata: nessuno merita di essere dimenticato o “scomparire”. Partendo da Waving through the window e passando poi per la hit You Will Be Found, fino a For Forever, i brani di Pasek e Paul esprimono in modo accurato e coinvolgente le emozioni provate da chi deve fare i conti con solitudine, incomprensione, depressione e ansie che hanno un impatto a volte devastante nella vita, soprattutto dei più giovani. L’aggiunta di The Anonymous Ones, canzone ideata in collaborazione con l’attrice Amandla Stenberg, enfatizza ancora di più il desiderio di ricordare agli spettatori che bisogna andare oltre l’apparenza per capire veramente una persona, non lasciandosi ingannare dall’immagine costruita per gli altri.
Caro Evan Hansen, pur avendo al centro il tema del suicidio, non è una storia sul lutto e sulle conseguenze della morte spesso all’insegna dell’ipocrisia e dei finti rimpianti, ma si concentra invece sul desiderio di vivere, amare e creare dei legami e uscire dalla convinzione di essere totalmente invisibili, condannati ad andare incontro agli ostacoli da soli rimanendo anonimi e senza che nessuno si accorga di quanto ci sta accadendo. Non si tratta di un ritratto di singoli individui, ma di diverse generazioni che faticano a trovare punti di contatto, tra genitori distanti che non capiscono del tutto i propri figli, teenager che cercano ognuno a proprio modo il giusto approccio a un periodo di cambiamenti, vuoti che si cerca di colmare e sensi di colpa che si spera di placare, personaggi come Zoe costretti a crescere troppo in fretta che nascondono il dolore e usano la propria resilienza per riuscire ad affrontare i momenti bui, pur essendo consapevole delle conseguenze dell’assenza di un affetto in famiglia e tra fratelli che alle volte si dà per scontato. E poi c’è Evan Hansen, con il suo disagio interiore, il desiderio di aiutare gli altri senza nemmeno essere in grado di aiutare se stesso, e un bisogno d’amore che in più occasioni offusca la necessità di imparare ad ammettere i propri limiti e accettarsi. Presenze tratteggiate dagli autori e dagli interpreti con delicatezza e comprensione, senza mai giudicare nemmeno quando le scelte compiute sono profondamente sbagliate. Non c’è, infatti, un approccio edulcorato agli eventi portati in scena e, pur non dando troppo spazio alle conseguenze, si sottolinea in più momenti come sia impossibile giustificare certi errori, anche se ne comprendono le motivazioni alla base. Il film, come il musical, non è perfetto e non cerca nemmeno di esserlo, ma ha la grande forza di ribadire a gran voce che c’è sempre spazio per la speranza e, anche nei momenti di maggiore sconforto, c’è chi è in grado di aiutare a superare i passaggi più bui della propria esistenza e trovare il proprio spazio nel mondo. Un messaggio, quello di Caro Evan Hansen di cui c’è sempre più bisogno e che va trasmesso, ascoltato e sostenuto per provare a dare vita a un cambiamento necessario nel modo in cui ci relazionamo tra esseri umani.
Il regista Lázaro Ramos, al suo esordio alla guida di un lungometraggio, propone con Executive Order, presentato al Pan African Film Festival, un racconto ambientato in una società distopica in cui in Brasile prende il potere un governo autoritario che decide di imporre a tutti i cittadini che discendono da famiglie africane di abbandonare la nazione, situazione che causa caos, morte e la nascita di un movimento che cerca di resistere e opporsi alle nuove regole. Alfred Enoch interpreta un avvocato, Antonio, che sembra avere davanti a sé un futuro sereno accanto alla moglie Capitu (Taís Araújo), ma si ritrova diviso dalla donna che ama e costretto a nascondersi nel proprio appartamento insieme al cugino, il giornalista Andre (Seu Jorge), con cui inizia a ribellarsi alle autorità e trasmettere video di protesta che attirano l’attenzione dei media e della popolazione, anche a livello internazionale. Capitu, nel frattempo, trova rifugio in un “afro-bunker” dove si nascondono molti cittadini di origine africana e si inizia a gettare le basi della resistenza.
Executive Order non sfrutta nel modo migliore il proprio potenziale e la struttura narrativa appare suddivisa in parti eccessivamente separate tra loro, proponendo fin troppi spunti e sottotrame che rendono l’insieme piuttosto confuso e incerto. Uno degli elementi più convincenti è la gestione degli aspetti emotivi della vicenda e grazie a un’ottima performance di Enoch e di Araújo si viene coinvolti nelle loro reazioni al caos che li circonda, tra tentativi di mantenere la propria umanità e disperazione nel constatare che il proprio futuro sembra sia stato spazzato via per sempre. Il rapporto tra i personaggi non è sviluppato del tutto in modo adeguato, rendendo i passaggi maggiormente drammatici non all’altezza delle aspettative e gli elementi sociali e politici sono delineati fin troppo a grandi linee per rendere il contesto realistico e credibile. Executive Order riesce però a sfruttare a proprio favore un atto conclusivo ben costruito sulle basi di un paio di scene di grande impatto emotivo.
Il film di Ramos paga forse più del dovuto il prezzo dell’ambizione che contraddistingue il progetto, non trovando il giusto equilibrio tra commento sociale e dramma personale, tuttavia la bravura di Enoch e un paio di sequenze memorabili rendono la visione un’esperienza interessante e stimolante.
Il regista e sceneggiatore Muzi Mthembu propone con African American, presentato al Pan African Film Festival, un racconto al femminile di sogni che si scontrano con i limiti di una società, maschilista e in più occasioni razzista, problemi economici e le tradizioni culturali della famiglia in cui è cresciuta, in cui desideri come quello di lavorare nel campo dello spettacolo non sono visti di buon occhio. Al centro della trama c’è Nompumelelo (Phumi Mthembu) che, dopo aver accettato un matrimonio combinato per aiutare la sua famiglia, scopre che era stata accettata come studentessa alla Julliard, la prestigiosa scuola d’arte, ma il padre le aveva nascosto la lettera di ammissione, facendole credere di non avere alcuna concreta possibilità di iniziare una carriera come cantante o attrice. La giovane decide quindi di lasciarsi alle spalle una vita che le sta stretta e partire con destinazione New York, subendo le conseguenze della sua ribellione. In suo aiuto, tuttavia, entra in scena Jaquan (Anthony Goss) con cui si stabilisce un rapporto complicato e non privo di conflitti.
African America riesce, inizialmente, a sviluppare bene le tematiche alla base della storia offrendo un ritratto significativo ed emozionante delle difficoltà che affrontano i giovani nati negli Stati Uniti, ritrovandosi divisi tra le proprie origini e un mondo diverso da quello in cui sono cresciuti i propri genitori e nonni. Phumi Mtembu possiede il carisma giusto per trasportare gli spettatori in una quotidianità complicata dal punto di vista emotivo e psicologico e coinvolgerli mentre si assiste ai rifiuti che riceve, alle ingiustizie subite e ai ricatti morali che deve affrontare. Il problema del film, tuttavia, è una sceneggiatura che nella seconda parte del racconto perde compattezza ed esagera portando situazioni ed emozioni sopra le righe e non trovando il modo di far evolvere la storia senza mai perdere il realismo che sembrava caratterizzarlo. Il cast in più momenti fatica a non scivolare in interpretazioni fin troppo melodrammatiche, pur riuscendo a gestire bene i passaggi maggiormente dedicati ai tentativi di trovare il proprio posto nel mondo, a livello personale e professionale.
Un montaggio con meno passaggi a vuoto dal punto di vista narrativo avrebbe forse aiutato il film, che lascia invece la sensazione di ritrovarsi di fronte a un’opera promettente su cui sarebbe necessario lavorare ancora un po’.
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