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Diodato al Café de la Danse di Parigi

Diodato è approdato in Francia, al Café de la Danse di Parigi, regalando un concerto pieno di energia, talanto e simpatia.
Davanti a un pubblico molto italiano nonostante la location, il mancato vncitore dell’Eurovision 2020 (perché, ammettiamolo, le chance che avrebbe conquistato il pubblico come fatto con la sua esibizione a maggio durante le serate dell’edizione 2022 a Torino erano molto alte), ha proposto il giusto equilibrio tra malinconia, ironia e rock in grado di dare nuova forza anche a classici come Amore che vieni, amore che vai. Sono pochi i talenti che sono in grado di mettersi alla prova con un brano di Fabrizio de Andrè senza far rimpiangere l’originale, ma Diodato riesce nell’impresa e lo fa inserendo la canzone in una setlist che spazia tra sonorità e generi in modo naturale e coinvolgente, sottolineando tutte le sfumature di una personalità artistica ormai matura.


L’omaggio alla Francia è una parentesi divertente e piacevole all’interno di una selezione di brani in cui non può mancare Fai rumore, ma che fa apprezzare ancora di più rispetto alla versione album canzoni come Fino a farci scomparire, la significativa Essere semplice o la tagliente La lascio a voi questa domenica, ben costruita sul contrasto del ritmo leggere e un significato molto profondo.
La location intima e suggestiva crea la giusta atmosfera per un’ottima interazione con il pubblico che ha dimostrato di apprezzare il talento e il carisma di Diodato, accogliendolo letteralmente a braccia aperte per la sua interpretazione di Non ti amo più in platea, per la gioia dei presenti e un po’ meno del tecnico costretto a sbrogliare il filo del microfono.
La dimensione live, anche grazie alla bravura dei musicisti che lo accompagnano in tour, valorizzano tutti i punti di forza di Diodato che si conferma come uno degli autori e interpreti più meritevoli nel panorama musicale italiano degli ultimi anni.

The Killers in concerto al Milano Summer Festival 2022

The Killers sono tornati in Italia con un concerto che ha ribadito la maturità artistica che ha raggiunto la band nel corso di ormai quasi venti anni. Una carriera che, paragonata a quella dei The Rolling Stones saliti sul palco del poco distante stadio San Siro in contemporanea, ha ancora molto da regalare ai fan della musica come ha dimostrato Pressure Machine, un vero dono per cui si deve in parte ringraziare la pandemia che ha costretto il gruppo a uno stop forzato delle tante date live che li portano in giro per il mondo in modo costante.
Il tour, ufficialmente legato a Imploding the Mirage, non offre infatti titoli tratti dalla loro ultima fatica che, in ogni caso, meriterebbe una cornice più intima come quella dei teatri rispetto alle arene all’aperto per essere valorizzata nel migliore dei modi.

La setlist vede ancora il dominio delle hit tratte da Hot Fuss, per la gioia dei fan vecchi e nuovi, ma l’energia e la sicurezza sono quelle della fase post Battle Born (uno degli album forse più sottovalutati della loro carriera). Dave Keuning non è presente sul palco, ma il sostituto Ted Sablay non fa rimpiangere affatto la sua assenza per talento e capacità di interagire con il frontman e sembra ormai un membro della band seppur non ufficiale, ma Brandon Flowers, sostenuto dall’energia di Ronnie Vannucci, è uno dei migliori performer della sua generazione e lo ha ribadito a Milano non risparmiandosi vocalmente e fisicamente, interagendo con il pubblico (e non si può non ringraziare il fan che l’ha “corrotto” pagandolo per ascoltare This River Is Wild) e mettendosi persino alla prova con una cover di Ti amo di Umberto Tozzi, dimostrando di sapersela cavare anche con l’italiano.

Sostenuti da tre coriste le cui voci aggiungono le giuste sfumature a ogni brano e da scelte visive di grande impatto, The Killers trascinano il pubblico senza sbavature e passi falsi verso un encore che conduce, senza particolari sorprese, verso il trascinante Human e l’ormai immancabile, e sempre irresistibile, Mr. Brightside. Sono passati quasi venti anni, ma il primo singolo del gruppo rimane uno dei più conosciuti in ogni angolo del globo, Italia compresa, e continua, anno dopo anno, a delineare un’esperienza musicale trascinante ed emozionante, di quelle che si vogliono rivivere più volte e rimangono impresse nella memoria a lungo.

Call Jane – Recensione – Sundance 2022

Phyllis Nagy, dopo aver firmato la sceneggiatura di Carol, ritorna dietro la macchina da presa con Call Jane, film ispirato alle attività del gruppo Jane Collective che, negli anni ’60 e ’70, ha aiutato le donne in difficoltà offrendo la possibilità di abortire in modo sicuro in un periodo in cui l’interruzione di gravidanza era ancora quasi del tutto illegale.

Per avvicinare gli spettatori a questa drammatica situazione sullo schermo si racconta la storia di Joy (Elizabeth Banks), moglie di avvocato e già madre, che si ritrova inaspettatamente alle prese con una gravidanza che mette seriamente a rischio la sua salute, scoprendo che non ha alcuna voce in capitolo sull’eventuale decisione di abortire. Dopo la drammatica scoperta, mostrata con un’efficace sequenza in cui la donna e suo marito si confrontano con il team di medici (ovviamente completamente formato da uomini) che devono decidere se ci sono gli estremi per intervenire, rendendosi conto che nessuno chiede la sua opinione o indaga sui suoi desideri e problemi, Joy scopre una realtà fatta da incidenti casalinghi compiuti appositamente per obbligare lo staff medico a compiere l’aborto, presunte soluzioni e attività illegali che mettono a rischio la vita delle donne. A cambiare tutto sarà la scoperta dell’esistenza dell’organizzazione che interviene per aiutare chi è in difficoltà offrendo una procedura sicura, assistenza psicologica e sostegno. Joy, dopo aver provato in prima persona l’ingiustizia causata dalle leggi in vigore, prenderà quindi in mano la sua vita impegnandosi attivamente per aiutare chi si trova nella sua stessa situazione.

Il film Call Jane è particolarmente efficace nel ricreare l’atmosfera degli anni in cui si svolge la storia e propone dei ritratti femminili, in particolare quello di Joy interpretata con convinzione e trasporto da Elizabeth Banks, mai unidimensionali. L’evoluzione della protagonista, accompagnata da una colonna sonora che comprende anche dei brani dei Velvet Underground e da citazioni di opere cinematografiche e letterarie come Vertigo, è ben costruita per rendere credibile come la mite casalinga e madre di una quindicenne sia pronta a mentire e rischiare problemi con la legge, lottando per ciò in cui crede. La sceneggiatura di Hayley Shore e Roshan Sethi delinea inoltre con bravura la figura dell’attivista Virginia (Sigourney Weaver), la carismatica leader dell’organizzazione che sa gestire l’attività clandestina e offrire al tempo stesso sostegno emotivo alle donne che si affidano ai suoi servizi. I dialoghi tra i membri della Jane Collective spaziano dal divertimento alle riflessioni sulle tematiche razziali e politiche, e rappresentano uno degli elementi più riusciti del lungometraggio.
I personaggi maschili, dall’avvocato dal buon cuore Will (Chris Messina) all’opportunista Dean (Cory Michael Smith) che compie la procedura clandestina più per soldi che per ideologia, non sono sviluppati nel migliore dei modi pur potendo contare su interpreti che riescono a infondere sfumature e profondità anche a scene fin sviluppate fin troppo a grandi linee. Deludono, inoltre, più del dovuto le presenze di Lana (Kate Mara), che rimane molto in ombra e incarna un po’ troppi stereotipi, e Charlotte di cui non si approfondisce mai realmente la rabbia adolescenziale o i dubbi personali che la portano a compiere anche duri giudizi.

La regista sa però trovare in Call Jane un buon equilibrio tra dramma e leggerezza, non edulcorando mai le paure e i rischi vissuti dalle donne durante un momento così personale come quello di un’interruzione di gravidanza. Il film ha inoltre il merito di ricordare tutte le possibili motivazioni che possono portare una donna a prendere una scelta, mai facile, che ha un impatto così importante sulla propria vita.
Call Jane non è privo di difetti, ma la bravura della regista e delle interpreti portano a superare i punti deboli trasmettendo con forza e convinzione il messaggio alla base del progetto e spingendo a riflettere sui diritti delle donne.

Resurrection – Recensione – Sundance 2022

Rebecca Hall regala uno dei monologhi più intensi, disturbanti e memorabili degli ultimi anni nel film Resurrection, un interessante thriller psicologico che sfocia in atmosfere horror presentato al Sundance 2022 e destinato a far parlare di sé a lungo.

Al centro della trama c’è Margaret (Hall), che lavora per un’azienda farmaceutica e sembra particolarmente controllata e leggermente ansiosa nei confronti di quello che potrebbe accadere alla figlia diciottenne (Grace Kaufman). Margaret si occupa da sola dell’adolescente e ha una relazione con un uomo sposato (Michael Esper). La vita della donna scivola però nel panico e nella paranoia quando nota un uomo misterioso (Tim Roth), legato al suo passato.
Successivamente si scoprirà, con un monologo straziante e incredibilmente intenso, che si tratta di David, con cui ha avuto una relazione 22 anni prima e l’ha sottoposta a abusi mentali ed emotivi, oltre a essere legato alla morte del loro figlio, Benjamin. Margaret è riuscita a fuggire e rifarsi una vita, tuttavia la sua semplice apparizione la fa scivolare in un vortice di ansie e paure, mentre chi è intorno a lei inizia a preoccuparsi seriamente della sua situazione, fino a quando una rivelazione la spinge a prendere una decisione drammatica.

L’interpretazione di Rebecca Hall sostiene con efficacia una narrazione che, affidata a un’interprete meno esperta ed espressiva, avrebbe potuto scivolare persino nel ridicolo. La protagonista, invece, rende credibile ogni passaggio della storia, anche i più surreali, e l’evoluzione del personaggio, dando vita a un crescendo ben gestito dal regista Andrew Semans. Il filmmaker ha inoltre sfruttato con intelligenza la fotografia rarefatta e fredda, che amplifica ancora di più l’effetto drammatico, firmata da Wyatt Garfield e una colonna sonora firmata da Jim Williams mai invadente e ben calibrata sugli eventi portati sullo schermo.
La sceneggiatura di Semans delinea inoltre con attenzione la presenza di David, rendendo credibile la sua capacità di manipolare, la crudeltà che contraddistingue il rapporto con Margaret e il contrasto tra l’esteriorità mite e un’interiorità da sociopatico. Tim Roth appare la scelta perfetta per una parte così cruciale per la buona riuscita del progetto e le scene che lo vedono protagonista rendono credibile l’idea che una donna possa diventarne vittima e rischi di essere annientata mentalmente da una presenza così dominante nella sua vita.
L’ultimo atto della storia sembra destinato a dividere gli spettatori, tuttavia è sostenuto da una struttura narrativa ricca di sfumature che rendono Resurrection un thriller davvero riuscito sulle conseguenze di un trauma, sui danni di una relazione tossica, e sulla capacità di trovare la forza di rialzarsi e iniziare un nuovo capitolo della propria vita.

Dual – Recensione – Sundance 2022

Karen Gillan, la star di Guardiani della Galassia e Doctor Who, si mette alla prova con un doppio ruolo in Dual, film presentato al Sundance Film Festival 2022.
Il lungometraggio diretto da Riley Stearns propone un affascinante insieme di riflessioni morali e pessimismo, faticando però a delineare la sua protagonista.

Al centro della trama c’è la giovane Sarah che sembra avere un’esistenza monotona e priva di momenti significativi, discutendo con la madre e mantenendo una relazione a distanza con il fidanzato Peter (Beulah Koale).
Quando la ragazza scopre di avere una malattia in stato terminale si ritrova di fronte a una possibilità concessa solo a chi sta per perdere la vita: creare un clone di se stessa per alleviare il dolore delle persone amate, in modo che prenda il suo posto.
La nuova versione di Sarah, tuttavia, sembra una versione migliorata dell’originale e riesce a ottenere l’approvazione di Peter e della madre di Sarah (Maija Paunio). Dopo aver scoperto di essere guarita, Sarah è costretta a dover prepararsi a un duello mortale perché solo una di loro potrà restare in vita. Mentre tutte le persone amate le voltano le spalle facendo il tifo per la “copia”, Sarah assume un allenatore (Aaron Paul) per aiutarla a prepararsi al combattimento.

Karen Gillan è molto brava nel gestire il doppio ruolo che le è stato affidato e rende le interazioni tra le due Sarah particolarmente significative e, in certi momenti, persino strazianti mentre si avvicina la resa dei conti finale. L’attrice non ha però a disposizione una sceneggiatura in grado di seguire il cambiamento della protagonista in modo realistico e con le giuste sfumature, lasciando fin troppo spazio alla sua apatia e non chiarendo le motivazioni alla base della totale mancanza di empatia nei suoi confronti da parte del fidanzato e della madre.


La sequenza iniziale di Dual, in cui si assiste a uno dei duelli mortali, sembrava gettare le basi per una rappresentazione ben più cupa e ricca di sfumature delle questioni etiche e morali che emergono quando ci si ritrova a dover combattere contro “se stessi” pur di rimanere in vita. Il film di Riley Stearns fatica nella prima parte della narrazione e sembra trovare forza dal punto di vista dell’approfondimento psicologico dei personaggi dal momento in cui entra in scena l’allenatore affidato ad Aaron Paul. La narrazione, tuttavia, non riesce a sviluppare in modo coerente i vari tasselli che compongono la storia e il finale appare fin troppo affrettato e sostenuto in modo molto debole dagli eventi precedenti.
A livello delle tematiche portate sullo schermo Dual risulta un film molto ambizioso e, nonostante un risultato non all’altezza delle aspettative, comunque stimolante e in grado di mantenere alta l’attenzione.
L’atmosfera creata grazie alla fotografia di Michael Ragen, che crea una realtà quasi sospesa che appare in più momenti quasi offuscata e avvolta da una nebbia, e alla musica composta da Emma Ruth Rundle è inoltre molto suggestiva ed efficace nel trasportare gli spettatori in una società che ha moltissimi punti in comune con la realtà, tra l’attenzione per la violenza e i drammi e l’incapacità di sostenere i cittadini nei momenti difficili.

Dual, tra cupa ironia e momenti sopra le righe, riesce persino a strappare qualche risata, ma dispiace veder sprecato il reale potenziale della storia e la bravura degli attori con una narrazione che, in più momenti, sembra non avere le idee chiare sulla direzione da prendere.

Am I OK? – Recensione – Sundance 2022

Dakota Johnson, dopo Cha Cha Real Smooth, offre al Sundance 2022 un’altra interpretazione di ottimo livello con Am I OK?, il film diretto da Stephanie Allynne e Tig Notaro.
L’attrice ha la parte di Lucy, una trentaduenne che ha un grande talento come artista ma trascorre le sue giornate lavorando senza entusiasmo come receptionist in una spa. La sua amica Jane (Sonoya Mizuno) sembra invece avere le idee chiare riguardanti ciò che vuole nella vita e nel suo futuro c’è una promozione che la porterà dall’altra parte dell’Oceano, a Londra, programmando così il suo trasferimento nel Regno Unito insieme al fidanzato Danny (Jermaine Fowler).
La prospettiva di dover fare i conti con l’assenza dell’amica porta Lucy a riflettere sulla propria vita, ammettendo per la prima volta a se stessa, e agli altri, di essere attratta dalle donne, cercando così il coraggio di avvicinarsi alla collega Brittany (Kiersey Clemons).

La sceneggiatura di Lauren Pomerantz compie un buon lavoro nel mostrare come si modificano gli equilibri esistenti da anni quando si inizia a mettere in dubbio ciò che si riteneva un punto fisso nella propria vita. Dakota Johnson sa trasmettere con bravura le incertezze e il senso di vulnerabilità di Lucy dopo aver avuto il coraggio di ammettere la propria omosessualità, ponendo fine così ai continui tentativi della sua amica di farle compiere dei passi in avanti nelle sue relazioni. La trentenne, complicata e sensibile, diventa una presenza realistica e con cui è facie provare empatia grazie agli sguardi e alla presenza scenica della sua interprete che possiede il mix giusto di fascino e innocenza. La scena in cui Lucy dà spazio alla sua attrazione per Brittany e l’insicurezza che contraddistingue le giornate successive sono delineate in modo intelligente per non far sembrare mai la protagonista ingenua e immatura, ma semplicemente un po’ “persa” in una realtà che cerca di conoscere. La distanza che si forma con la pragmatica Jane, portata sullo schermo senza particolari sbavature da Sonoya Mizuno, riassume con una certa efficacia quello che spesso accade quando un’amicizia di lunga data si scontra con gli inevitabili cambiamenti che avvengono da adulti e Am i OK? dà spazio all’incertezza che si forma quando tutto è nuovo, dalle risposte da dare ai messaggi alle incomprensioni che possono dividere per sempre o far allontanare.

Il film sceglie un approccio lineare alla narrazione, accompagnata da una convincente colonna sonora, e compie forse l’errore di non osare mai troppo, proponendo così un racconto semplice e a tratti emozionante che non sorprende, pur suscitando affetto per le protagoniste e un po’ di nostalgia per quei periodi della vita contraddistinti da un futuro ancora tutto da decidere e contraddistinto da tante strade aperte da percorrere.

Navalny – Recensione – Sundance 2022

Nei giorni in cui il nome di Alexei Navalny è tornato tra le pagine di cronaca, dopo le accuse delle autorità russe di essere un terrorista, al Sundance 2022 è stato presentato il documentario dedicato all’avversario di Vladimir Putin, progetto (con merito) premiato con numerosi riconoscimenti in questa edizione del festival.

Il regista Daniel Roher ha avuto modo di intervistare e seguire l’avvocato e politico mentre si trovava in Germania dove, nel 2020, stava ristabilendosi dopo un tentato omicidio compiuto avvelenandolo.
Dopo essere uscito dall’ospedale, Navalny ha collaborato con il giornalista e hacker Christo Grozev, che fa parte del gruppo chiamato Bellingcat, per provare a fare chiarezza su quanto gli è accaduto. Le indagini compiute hanno così portato alla scoperta dell’identità di alcuni uomini che sembravano aver seguito Alexei fino a Tomsk. Uno dei momenti più inaspettati, ed efficaci, del documentario è proprio il momento in cui Navalny si finge un funzionario del governo e chiama i possibili colpevoli fingendo di voler capire perché l’oppositore non sia morto. Uno degli uomini che ha compiuto il viaggio seguendolo in Siberia, Konstantin Kudryavstev, inaspettatamente ammette di aver agito come pianificato, anche se il risultato non è stato quello sperato.
L’attentato è inoltre mostrato grazie al drammatico video girato a bordo dell’aereo dove si trovava il politico quando ha iniziato a fare i conti con i terrificanti dolori fisici, come dimostrano le strazianti urla di Navalny. Sullo schermo spazio poi alla corsa in ospedale, alla lotta della moglie Yulia per provare a vedere il marito e assicurarsi che stia ricevendo le cure necessarie, temendo che la sua permanenza in un ospedale russo potesse rivelarsi mortale, l’intervento di Angela Merkel, il viaggio in Germania e le analisi che hanno portato alla conferma della sostanza, Novichok, usata per provare a far uscire di scena l’avversario di Putin.

Navalny, oltre agli elementi che farebbero la gioia di qualsiasi sceneggiatore di thriller politici, è però molto di più. Fin dall’inizio, infatti, sullo schermo si dà spazio alla personalità di Alexei che ha una visione molto chiara della pericolosità della sua situazione e, nonostante tutto, non perde la sua ironia e la sua determinazione. Nei primi minuti, posto di fronte a una domanda “scomoda”, Navalny si rende conto che la risposta potrebbe essere usata nel caso in cui venisse ucciso. L’attivista, che è un avvocato e ha iniziato la carriera politica per contrastare corruzione e criminalità, sa il valore e l’importanza delle sue parole e delle sue azioni, regalando così in più momenti delle riflessioni importanti sull’importanza delle scelte degli individui sulla società e sul far emergere la verità e lottare per la giustizia.

Roher permette di avvicinarsi alla figura del protagonista della sua opera in modo intelligente ed esaustivo, ripercorrendone la campagna, i comizi in cui è particolarmente attento a far esprimere ai presenti le critiche nei confronti di Putin senza dichiarare frasi che possono incriminarlo, la totale mancanza di rispetto da parte del suo avversario che decide di non pronunciarne mai il nome in segno di disprezzo e superiorità, l’attacco subito nell’aprile 2017 quando gli è stato spruzzato un liquido tossico in viso causandogli dei danni alla vista nell’occhio destro, i raid al suo ufficio e al suo team, l’esclusione da ogni articolo nei quotidiani e servizio televisivo, l’impossibilità di organizzare eventi e il continuo stato di tensione e pericolo che contraddistingue la sua vita quotidiana. Le situazioni proposte spingono inevitabilmente a far riflettere su quanta forza d’animo e resilienza sostengano l’attivista nella sua lotta contro il regime e il documentario permette inoltre di scoprire la prospettiva dei membri della sua famiglia, dalla moglie Yulia ai figli, tra cui la diciannovenne Dasha che studia negli Stati Uniti e sembra aver accettato con grande maturità le conseguenze della lotta del padre, nonostante l’ansia e la malinconia che emergono in alcune delle sue dichiarazioni.

L’atto finale del documentario segue Alexei Navalny dopo la decisione di tornare in patria, mostrando passo dopo passo il viaggio con destinazione Mosca mentre all’aeroporto i suoi sostenitori affrontano le autorità venendo arrestati, respinti e silenziati. La regia di Roher, con un sapiente montaggio che spazia dallo sguardo del protagonista in volo al suo team che assiste agli eventi seguendoli grazie ai telegiornali, non dà spazio alla speranza. L’arresto dell’avversario di Putin, nonostante la razionalità che porterebbe a confidare nella giustizia, è inevitabile mentre Alexei e la moglie cercano di rilassarsi guardando Rick and Morty o scherzano con gli altri viaggiatori chiedendo scusa per i problemi causati.

Il lavoro compiuto dal filmmaker risulta importante e necessario grazie alla sua capacità di equilibrare il lato umano, con le dimostrazioni di affetto nei confronti della moglie persino in tribunale, con quello politico e sociale e impone all’attenzione del pubblico internazionale la figura di un uomo disposto a lottare contro un regime autoritario condividendo un messaggio universale che merita di essere ascoltato, apprezzato e condiviso.

Cha cha real smooth – Recensione – Sundance 2022

Ci sono film imperfetti che riescono, nonostante i loro difetti, a conquistare il cuore degli spettatori e diventare una di quelle opere che si ritorna a guardare più volte nella vita, ottenendo ogni volta lo stesso senso di calore e gioia. Cha Cha Real Smooth fa parte di questa categoria e, dopo la presentazione al Sundance Film Festival 2022, sarà interessante scoprire l’accoglienza che verrà riservata al progetto scritto, diretto e interpretato da Cooper Raiff con una distribuzione a livello internazionale.

Al centro della trama c’è il romantico e ingenuo, persino un po’ immaturo, Andrew (Raiff) che, dopo aver finito i suoi studi universitari si ritrova a tornare a vivere a casa della madre (Leslie Mann), dormendo sul pavimento nella stanza del fratello minore David (Evan Assante), e non risparmiando battute sarcastiche al patrigno Greg (Brad Garrett). Il giovane, che sperava di trovare un lavoro e raggiungere la ragazza che ama a Barcellona, si è invece alle prese con un deludente lavoro in un fast food. A dare una svolta alla sua vita è la scelta di accompagnare David a un Bar Mitzvah dove fa la conoscenza di Domino Dakota Johnson) e di sua figlia, affetta da autismo, Lola (Vanessa Burghardt). La simpatia e la sensibilità di Andrew riescono a conquistare l’attenzione della giovane, che viene emarginata e persino bullizzata dai suoi compagni di scuola, e della madre, oltre a fargli ottenere un lavoro part time come animatore proprio ai Bar Mitzvah dei compagni di scuola del fratello. L’incontro tra Domino, che è fidanzata con Joseph (Raul Castillo), porterà il protagonista a compiere un percorso personale in grado di farlo maturare e iniziare a capire cosa vuole realmente nella sua vita.

Raiff crea con il personaggio di Andrew un personaggio quasi in stile Charlie Brown: sfortunato in amore e nella vita, dall’onestà disarmante, a suo agio più con i ragazzi dell’età del fratello (come sottolinea in modo esilarante una scena nella parte finale del film che lo ritrae in macchina sul sedile posteriore tra i bambini), ancora incerto su cosa vuole nella vita e adorabilmente imperfetto. Il filmmaker è una vera e propria rivelazione in Cha Cha Real Smooth grazie alla sua capacità di creare un feeling realistico ed emozionante con tutti gli altri membri del cast. Cooper accanto a Dakota Johnson crea un misto di attrazione e amore platonico che rende ogni interazione tra i due magnetica e all’insegna di un sentimento dal destino apparentemente segnato fin dall’inizio, mentre con Vanessa Burghardt ed Evan Assante diventa un amico confidente che non tratta quasi mai con superiorità i ragazzini, nonostante la loro giovane età. Le scene con Leslie Mann, inoltre, sono particolarmente ben scritte e interpretate, rendendo credibile il rapporto madre-figlio, e nelle scene in cui è insieme ai coetanei il protagonista incarna tutte le incertezze di una generazione che sogna di cambiare il mondo, ma è bloccata in una realtà insoddisfacente che delude tutte le loro aspettative.

Il personaggio di Andrew, che sostiene l’intera narrazione, è stato scritto in modo davvero brillante e intelligente grazie all’equilibrio tra pregi e difetti. Gli spettatori non si trovano così di fronte a un principe azzurro pronto a difendere i più deboli dall’alto di una sua superiorità fisica e morale, ma un ragazzo normale che perde la pazienza quando ha una giornata storta, beve troppo, non è nemmeno particolarmente bravo a letto, ma è un amico vero, fedele, leale e con un animo romantico che gli permette di provare empatia ed entrare in sintonia con il prossimo.
Dakota Johnson, dopo The Lost Daughter, torna a interpretare una madre e riesce a delineare una giovane donna vulnerabile e alle prese con incertezze e dubbi. Le scene in cui Domino si confida con Andrew fanno emergere con piccoli sguardi e silenzi tutti i dubbi di una persona diventata madre molto presto e che da tempo sta affrontando responsabilità e l’ansia di essere abbandonata e affrontare nuovamente da sola gli ostacoli quotidiania.

Cha cha real smooth si allontana dagli stereotipi e le strade già percorse dalle commedie romantiche per offrire un approccio più realistico, e per questo così emozionante, al significato dell’amore nelle varie fasi della vita, sulle conseguenze delle scelte che compiamo ogni giorno e sull’importanza della resilienza e della forza d’animo che ci spinge ad andare avanti anche nei momenti difficili. La riflessione sul concetto dell’anima gemella, il passaggio da un’idea di amore totalmente ideale e simile alle favole a quello reale, e per questo imperfetto, e un epilogo senza sbavature impongono all’attenzione il talento di Cooper Raiff, un nome sicuramente da tenere d’occhio nei prossimi anni.

Il film si concede il tempo di far compiere a tutti i protagonisti un’evoluzione naturale e mai forzata, contraddistinta da un passo in avanti e tanti indietro, facendo ridere, commuovere e riflettere senza mai risultare stucchevole, prevedibile o banale.
La sceneggiatura ha più di un punto debole, in particolare nella gestione della figura materna e dei suoi problemi, ma il risultato è una storia semplice e al tempo stesso unica, impreziosita da una colonna sonora accativante e da tanti momenti di leggerezza che rendono la visione davvero piacevole e scorrevole, elementi che rendono Cha cha real smooth un’opera destinata a entrare di diritto nella lista dei titoli da non perdere in questo 2022.

Watcher – Recensione – Sundance 2022

Watcher, nonostante un budget non particolarmente elevato e una colonna sonora a tratti invadente, propone un thriller che riesce nel suo scopo di mantenere alta la tensione dall’inizio alla fine.

Chloe Okuno compie il suo esordio alla regia firmando una storia dall’atmosfera quasi claustrofobica nel seguire la giovane Julie (Maika Monroe) dopo il suo arrivo in Romania insieme all’amato Francis (Karl Glusman) ce ha accettato un nuovo lavoro.
La ragazza non conosce la città, la lingua e non ha alcuna amicizia a Bucarest. Il senso di solitudine si trasforma in crescente angoscia quando la ragazza inizia a pensare di essere continuamente osservata e seguita da un uomo che vive nell’edificio di fronte al suo. Francis, inizialmente, tiene seriamente in considerazione la sua preoccupazione per poi convincersi che si tratti solo del frutto della sua immaginazione. Julie cerca però di chiarire quanto sta accadendo seguendo il suo presunto stalker, e convidandosi con la sua vicina Irina (Madalina Anea), l’unica che continua a crederle e non pensa sia influenzata dalle notizie riguardanti un serial killer che sta uccidendo le donne in città.

La fotografia firmata da Benjamin Kirk Nielsen costruisce un’atmosfera fredda e rarefatta che sostiene bene l’alone di mistero che circonda la storia della protagonista, mantenendo il dubbio riguardante la possibilità che si tratti di paranoia o che ci sia qualcosa di vero nelle sue paure.
La sceneggiatura firmata da Zack Ford prosegue senza tentennamenti nel suo alternare l’idea di osservatore e oggetto dell’ossessione altrui, sfruttando lo sguardo di Maika Monroe che fa emergere nel suo sguardo la sua angoscia e al tempo stesso determinazione.
Senza particolari sorprese, ma giocando bene le sue carte, Watcher propone un thriller che soddisfa gli appassionati del genere sfruttando l’idea di isolamento e solitudine che vive la protagonista.

Good Luck To You, Leo Grande – Recensione – Sundance 2022

Emma Thompson regala con Good Luck to You, Leo Grande una delle migliori interpretazioni della sua carriera portando sugli schermi un personaggio femminile attuale e necessario nel panorama cinematografico.
La sceneggiatura firmata da Katy Brand conquista e sembra fin dall’inizio quasi un’opera teatrale in grado di usare i dialoghi per raccontare una storia al femminile all’insegna della scoperta di se stessa e della propria sessualità.
L’attrice ha infatti la parte di un’insegnante rimasta vedova, che si fa chiamare Nancy Stokes, che decide di assumere un escort, Leo Grande (Daryl McCormack), per avere per la prima volta nella sua vita un orgasmo.

Il film diretto da Sophie Hyde è costruito proponendo i vari incontri tra i due, passando da insicurezze a imbarazzi alla progressiva conoscenza che li porta ad aprirsi e confrontarsi sui propri desideri e sulle esperienze di vita. Nancy affronta sensi di colpa, la quasi inesistente autostima nel guardarsi allo specchio e la consapevolezza di non avere quasi nessuna esperienza dal punto di vista sessuale. Leo, invece, assume quasi un ruolo da terapista, stabilendo però delle regole ben precise per quanto riguarda le sue interazioni con la cliente. I dialoghi, scritti in modo brillante e realistico, sostengono l’evolversi del rapporto tra Leo e Nancy che non appare mai forzato e nemmeno stereotipato, allontanandosi da ogni possibile rappresentazione all’insegna della frustrazione o dello sfruttamento.

Il feeling che si stablisce tra Thompson e McCormack appare perfetto per reggere la narrazione che alterna seduzione, fragilità e scoperta di se stessa e del potere del piacere nel trovare il giusto equilibrio nella propria vita. L’atto finale del film, con un significativo confronto con un’ex studentessa, avrebbe forse bisogno di un passaggio intermedio per giustificare la scelta di Leo di confrontarsi nuovamente con Nancy, tuttavia il grande talento di Emma Thompson e la bravura della regista non fanno scivolare mai le situazioni nel cattivo gusto o nella prevedibilità, confezionando una storia di maturazione e crescita personale che non si rivolge solo a un pubblico femminile e di mezza età, proponendo riflessioni e situazioni universali.