Lewis Capaldi: How I’m Feeling Now avrebbe tutto il potenziale necessario a essere una docuserie davvero significativa ed emozionante. L’occasione non sfruttata non toglie comunque valore al documentario diretto da Joe Perlman, recentemente dietro la macchina da presa della reunion del ventesimo anniversario di Harry Potter.
Il progetto che ha debuttato il 5 aprile su Netflix è infatti un ritratto sincero del cantautore scozzese che ha saputo conquistare tutto il mondo con le sue canzoni e la sua personalità irrestistibile, non esitando nemmeno a mostrarne i momenti di debolezza e i problemi di salute.
How I’m Feeling Now segue Lewis mentre lavora al suo secondo album e affronta i mesi in cui la pandemia ha bloccato ogni tour musicale ed eventi dal vivo. Dallo sconforto legato a un’evidente sindrome dell’impostore alle conseguenze della sindrome di Tourette, che scopre di avere solo in un secondo momento, sullo schermo si assiste alla nascita dei nuovi brani, si ripercorre il percorso compiuto da quando ha iniziato ad avvicinarsi alla musica ancora bambino al successo globale, offrendo inoltre uno sguardo personale alla sua famiglia e agli amici che lo circondano. In poco più di un’ora e mezza, il documentario sottolinea tutta l’ironia che contraddistingue Capaldi, che i follower dei suoi social media conoscono bene, e regala uno sguardo onesto a quello che accade dopo aver raggiunto i vertici delle classifiche. Molto spesso si rischia infatti di sottovalutare la pressione psicologica che un artista, specialmente in un’epoca così connessa e competitiva, affronta dopo aver ottenuto una fama forse sperata, ma non priva di lati negativi, e di un senso di solitudine che si fa strada anche nei momenti di maggior successo. Ed è proprio nei momenti in cui Lewis deve fare i conti con la propria insicurezza e l’ansia che ci si rende conto di quante volte il mondo dello spettacolo venga ritratto solo attraverso i suoi aspetti più luminosi o, al contrario, estremo, sorvolando sugli aspetti più umani del lavoro di un artista. L’ansia e i dubbi di Lewis fanno emergere il lato meno glamour dei tour mondiali e dei festeggiamenti per aver conquistato di nuovo la prima posizione in classifica, spingendo ad augurarsi che i propri artisti preferiti riescano a ritagliarsi il proprio spazio nel settore e a mantenersi economicamente con il frutto del proprio talento, ma senza dover fare i conti con le aspettative dei manager, di troppi fan e dei mezzi di comunicazione.
Il documentario con protagonista Lewis Capaldi è comunque una ventata di freschezza con la sua capacità di trovare un equilibrio tra la rappresentazione dell’industria discografica e il racconto personale. Le interviste ai genitori del cantante contribuiscono in modo significativo a dare profondità al ritratto proposto sugli schermi, offrendo una prospettiva maggiormente personale e ricca di sfumature alle situazioni in cui si trova il figlio. All’appello manca forse uno spazio maggiore dato a chi collabora con Capaldi, dagli amici che sono stati coinvolti nella sua carriera musicale agli autori che hanno contribuito alla produzione dei nuovi brani, e sarebbe stato interessante scoprire qualche retroscena su come è stato “scoperto” e sul rapporto con figure come il suo manager, tuttavia la visione di How I’m Feeling Now scorre in modo piacevole, emozionante e in più momenti davvero divertente, come i momenti in cui Lewis immagina già il montaggio finale del progetto, facendo conoscere in modo più approfondito e lontano degli stereotipi uno dei cantautori più talentuosi emersi negli ultimi anni.
Alle volte un film va oltre la sua natura di opera d’arte e diventa un atto necessario dal punto di vista sociale, la cui visione dovrebbe essere incentivata persino nelle scuole. Women Talking – Il Diritto di Scegliere è uno di questi. L’adattamento del romanzo di Miriam Toews firmato da Sarah Polley è un atto di accusa tanto duro quanto poetico, in grado di offrire spunti di riflessione senza tempo sulla violenza, psicologica e fisica, e sulle sue conseguenze.
La trama di Women Talking
La storia, ispirata a eventi realmente accaduti in una comunità mennonita, racconta con sensibilità e profondità rare l’orrore subito dalle donne, e bambine, di una colonia. Nonostante l’esistenza nella comunità sia priva di riferimenti temporali, lo spettatore è informato del fatto che gli eventi si svolgono nel 2010, ma sono tutte le generazioni ad aver subito attacchi durante la notte, dopo essere state addormentate con un sedativo abitualmente usato per le mucche. Al risveglio non si può che fare i conti con le ferite, il sangue, il trauma, la rabbia… Quando viene superato un confine che dovrebbe essere invalicabile le donne si rendono conto che non si può più accettare passivamente e bisogna reagire.
Le donne, che non hanno mai potuto avere un’educazione e a cui è stato detto che andandosene perderanno la possibilità di andare in Paradiso, hanno quindi tre scelte: restare e non fare nulla, rimanere e combattere, o andarsene. Salome (Claire Foy) è, dopo aver visto da vicino l’orrore più indicibile, pronta a restare e uccidere. Ona (Rooney Mara), incinta dopo la violenza, pensa di poter restare e lottare per avere la possibilità di creare nuove regole e ottenere l’uguaglianza. Mariche (Jessie Buckley), nonostante la convivenza con un marito violento, pensa invece che l’unica opzione sia perdonare. Prima che gli uomini arrestati siano liberati su cauzione, le donne provano a raggiungere la decisione con una votazione che, non avendo un risultato definitivo, porta a un dibattito a cui assiste, con il tempo di documentare la conversazione, August (Ben Whishaw), un giovane che era stato allontanato dalla comunità con la madre ed è poi tornato, per insegnare ai bambini, essendo inoltre innamorato da sempre di Ona.
Ritratti femminili che emozionano
Sarah Polley si è affidata alla fotografia di Luc Montpellier e alla colonna sonora firmata da Hildur Guðnadóttir per creare visivamente ed emotivamente un’atmosfera di grande impatto, che sottolinea ogni sfumatura della sofferenza, della resilienza e della forza delle donne al centro del racconto. La regista non cerca mai delle scorciatoie per raggiungere l’animo degli spettatori e lascia che l’evolversi del dibattito avvenga con la giusta dose di pause, rivelazioni, parentesi metaforiche, riflessioni filosofiche e religiose e persino momenti di divertimento. In scena si susseguono brevi ritratti di donne interpretate con grande bravura dall’intero cast. Claire Foy è ancora una volta da applausi nel trovare l’equilibrio tra dolcezza e rabbia, nell’alternare scene in cui non può permettersi di lasciare spazio al proprio dolore per riuscire a concentrarsi sul bene dei propri figli ai momenti in cui la sua forza diventa incontenibile. Rooney Mara è invece una presenza quasi angelica nel suo tentare di aggrapparsi alla speranza e a un amore che non ha mai realmente conosciuto, pur essendo in grado di darlo agli altri. Accanto a queste tre figure polarizzanti ci sono le donne di varie generazioni che fanno i conti quotidianamente, e in vari modi, il segno di un patriarcato tossico. Sarah Polley, nonostante non tutti i passaggi della narrazione si leghino uno con l’altro senza intoppi, riesce a mantenere un buon equilibrio tra tutti gli elementi che animano la riflessione, usando in modo intelligente l’unica presenza maschile, il sensibile August affidato a Ben Whishaw, per cercare di capire quale sia la giusta soluzione a crimini che superano la violenza fisica e a identificare la causa di comportamenti ingiustificabili.
Uno dei migliori film dell’anno
La regista si concentra sui volti, sui piccoli gesti, sul contrasto terribile tra chi sta dialogando in uno spazio ristretto e quasi claustrofobico per provare a porre fine a una catena di sofferenza e l’innocenza dei bambini che giocano all’aperto, rincorrendo solo ciò che li rende felici, apparentemente inconsapevoli che l’orrore è dietro l’angolo. Il risultato è un’opera dura, straziante e fondamentale, che spinge a riflettere sulla natura umana e sulla possibilità che ci sia ancora spazio per la speranza, nel futuro e nella bontà umana.
Women Talking avrebbe meritato più attenzione nella corsa agli Oscar 2023, ma la mancanza di statuette ambite non pregiudica l’ottimo lavoro compiuto da Sarah Polley e dal suo cast, in grado di colpire dritto al cuore e lasciare il segno.
Tornare a sentire una delle proprie band preferite dal vivo a distanza di vari anni è sempre un’esperienza che alla vigilia è accompagnata da molte aspettative. Quando si tratta degli Editors a preoccupare non è affatto il timore di rimanere delusi dalla performance, come chiunque abbia avuto modo di andare a un loro concerto sa senza ombra di dubbio, ma dalla qualità dell’acustica della location e dal pubblico. Il Fabrique di Milano non è esattamente il sogno di chi ama la musica dal vivo, ma mentre ci si mette pazientamente in fila diventa un fattore totalmente irrilevante dopo che l’entusiasmo che accompagna ogni concerto prende il sopravvento. Nella serata autunnale nella periferia milanese due sono le cose che balzano subito all’attenzione: i gestori dei locali dall’altro lato della strada meriterebbero un applauso per la scelta di trasmettere una playlist dei grandi successi degli Editors e lo zoccolo duro dei fan, composto da chi ha già girato mezza Europa per seguire la band ed è in pole position probabilmente dalla mattina, ha sentenziato quasi in modo unanime che EBM, troppo diverso per stile e sonorità, non è un album in grado di reggere il confronto con il passato, considerando che nelle prime fila si manifesta un’evidente nostalgia per i brani proposti dai cortesi dirimpettai che sarebbero superiori sotto ogni aspetto a quanto proposto nel nuovo album e si arriva a sostenere che nelle date precedenti sia stata percepibile una mancanza di entusiasmo persino sul palco.
Mantenendo un diplomatico silenzio, alimentato anche dal rispetto per l’opinione altrui e dalla (remota) possibilità che ci sia realmente poca convinzione nei confronti del proprio nuovo materiale, rimane però la certezza che con un album uscito da poco più di un mese è praticamente impossibile che una band dal vivo abbia già trovato la formula giusta per valorizzarlo individuando la setlist più adatta, le transizioni più convincenti e un arrangiamento in grado di unire passato e presente senza troppi intoppi. L’idea che dal vivo gli Editors possano lasciare insoddisfatti, considerando i precedenti, è quasi ridicola: le performance in cui non hanno portato in vita i brani infondendo nuove sfumature, maggiore intensità, più significato, energia e potenza probabilmente si contano sulle dita di una mano. E passiamo quindi alla spinosa questione EBM che sembra aver causato qualche disappunto nei fan più fedeli. Personalmente non lo ritengo un buon album, ma un album grandioso, di quelli che tra venti anni anche i più aspri critici quasi sicuramente dovranno ricredersi e iniziare a rivalutarlo. È diverso dal passato, certo, ma risulta davvero difficile capire come questo rappresenti un difetto e non un pregio. La scelta peggiore che possa fare un artista, e sintomo negativo dello stato della creatività che lo anima, è rifugiarsi in strade già percorse, ritornare nel mondo già conosciuto, attingere al passato per dare vita a qualcosa che non potrebbe mai essere realmente nuovo. La voglia di cambiare e sperimentare non dovrebbe mai essere condannata ma, al contrario, lodata e sostenuta senza mezzi termini. Ascoltando le conversazioni nelle parte anteriore della fila sembra che uno dei problemi nei confronti di EBM sia poi legato al fatto di trovarsi di fronte a qualcosa di “meno poetico”. Escludendo il fatto che il livello dei testi, anche nei casi meno riusciti, è sempre invidiabile all’interno del panorama musicale contemporaneo, ogni espressione artistica è frutto di talmente tanti fattori che risulta davvero difficile capire quale sia il problema di un’opera forse più abrasiva che dà spazio a esigenze espressive che erano rimaste in secondo piano o inesplorate in precedenza. A prescindere dai gusti personali – che portano a considerare Silence uno dei migliori brani di sempre degli Editors, ad ascoltare in loop alcune tracce considerandole quasi catartiche e aver desiderato in più occasioni di avere un’opzione di risposta automatica nei servizi di messaggistica con la voce di Tom Smith che chieda “Where were you when I needed you?” – EBM sembra aver preso tutte le influenze musicali e il frutto del proprio lavoro compiuto in precedenza, senza rinnegarlo in nessun modo, decidendo di dissamblarlo, fonderlo in modo nuovo e trovare qualcosa di totalmente originale e personale. Chi ama le versioni precedenti degli Editors potrà ascoltarne per sempre gli album, rivederne i concerti su YouTube, magari dare più attenzione ai progetti collaterali dei suoi membri, ma ciò non toglie che EBM è un nuovo punto di partenza e davvero promettente per il futuro. Se si ama la musica, pur rispettando le opinioni contrastanti, si dovrebbe accogliere il cambiamento riconoscendone il valore anche quando la direzione sembra non andare in quella delle preferenze dell’ascoltatore.
Una volta entrati negli spazi del Fabrique, a riscaldare l’atmosfera pre concerto all’interno è stato il duo KVB con un mix convincente ipnotico al punto giusto di elettronica e punk, accompagnata da delle interessanti proiezioni video su un palco che, dal punto di vista estetico, dà veramente poche possibilità agli artisti che lo calcano e penalizzano in parte l’ottimo lavoro compiuto con le luci studiate per accompagnare gli Editors live. Tra le due performance è stato poi offerto un mix di hit che non possono che entusiasmare, proponendo grandi classici che non dimenticano nemmeno i Depeche Mode e i R.E.M. con Losing Religion che porta a pensare quanto sia significativo che i componenti di una delle migliori rock band di sempre sia ricordata a livello universale per un brano che, pur essendo un capolavoro, non è il loro migliore e ha rappresentato uno spartiacque della loro carriera, dal punto di vista positivo e anche negativo. Come scelta per accompagnare verso l’inizio del concerto è però assolutamente perfetta e quasi un po’ ironica. Senza il successo di Out of Time i R.E.M. avrebbero forse continuato ad avere un pubblico più ristretto, ma non avrebbero dovuto affrontare i continui commenti di chi considerava quell’album l’apice della loro carriera e pietra di paragone usata per i successivi e precedenti capitoli della loro carriera che hanno, invece, regalato al mondo dei brani senza tempo e memorabili fino all’addio ufficiale.
Nell’assurda abitudine di confrontare costantemente gli artisti di generazioni diverse, gli Editors sono stati spesso paragonati ai Depeche Mode, New Order e Joy Division o persino a tratti gli Smashing Pumpkins, riferimenti più che comprensibili per quanto riguarda il lavoro in studio, ma dal vivo il confronto più calzante appare proprio quello con i R.E.M. che hanno avuto sempre la capacità di elevare le proprie canzoni portandole su nuovi livelli. La forza dei R.E.M., anche se a volte si rischia di dimenticarlo, non era solo nel carisma e nel lirismo di Michael Stipe, che sul palco si trasformava in una presenza magnetica e dava ai testi uno spessore e un significato alle volte totalmente nuovi, ma nella forza dell’insieme e nel talento versatile di ognuno dei membri, regalando una discografia che affronta con successo praticamente tutti i generi musicali. Bill Berry, Peter Buck e Mike Mills sono stati essenziali nel dare forma e personalità al gruppo e l’uscita di scena di Berry ha indubbiamente creato un vuoto percepibile. Chi ha avuto la fortuna di assistere nella propria vita a un concerto dei R.E.M. difficilmente non ha provato, almeno una volta nella vita guardando la registrazione di qualche live, il desiderio di poter rivivere quell’esperienza dal vivo, di assistere a un’esibizione che senza effetti visivi o espedienti vari sapeva trascinare ed emozionare dall’inizio alla fine e lasciare la voglia di seguire una band in tour in ogni parte del mondo. Gli Editors condividono con i loro predecessori la stessa essenza che permette di usare le virtù dei singoli per raggiungere un risultato in cui ognuno trova il proprio posto senza venir sacrificato o messo in secondo piano. Dal vivo questa caratteristica, anche nel caso di un’acustica per certi aspetti un po’ deludente come a Milano, diventa evidente. Con una setlist che propone quasi interamente il nuovo album, con la sola eccezione di (purtroppo) Silence ed Educate, non c’è da meravigliarsi che chi non lo abbia amato possa mantenere il proprio dissenso nonostante i brani prendano letteralmente vita e vengano valorizzati creando un’atmosfera che meriterebbe spazi più prestigiosi e sembrano destinati a entusiasmare il pubblico del John Peel Stage al Glastonbury Festival. Nonostante ci sia ancora chi rimpiange l’uscita di Chris Urbanowicz dal gruppo, la formazione composta da Tom Smith, Russell Leetch, Ed Lay, Justin Lockey, Elliott Williams e Benjamin John Power riempie visivamente e acusticamente la sala, dando anche ai vecchi brani un approccio nuovo che diventa evidente nel passaggio da Picturesque a In This Light and on this evening. Adagiarsi sugli allori e lasciare immutati i brani più amati dal pubblico sarebbe davvero facile ed è davvero apprezzabile il modo in cui ci sia un continuo plasmare in modo coerente e organico la propria musica, mantenendola sempre viva e attuale.
C’è sempre un momento in cui sul palco si assiste a un passaggio di consegne tra generazioni e chi è cresciuto all’ombra dei propri idoli li affianca e, in alcuni casi li supera. Bruce Springsteen ha dato la sua “benedizione” ai Killers di Brandon Flowers regalando un duetto indimenticabile con Dustland, canzone che sembrava fin dall’inizio nelle corde del Boss, e il gruppo ha sfornato uno dei migliori album dell’epoca pandemica con Pressure Machine in cui l’influenza del maestro del rock americano è cristallina, senza però mai permettere di viverlo nel migliore dei modi dal vivo e ritornando, con qualche gradita eccezione, alle sonorità di Imploding the Mirage e degli album precedenti in tour, avendo per giunta la possibilità di avere Johnny Marr come opening act e guest star speciale sul palco. Analizzando gli album degli Editors si potrebbero snocciolare tutti i nomi degli artisti di cui si può notare l’influenza nel corso degli anni, ma l’epoca EBM dal vivo riporta direttamente a metà degli anni ’90, all’indimenticabile tour immortalato nel Road Movie ’95 in cui i brani di Monster e, successivamente New Adventures in Hi-Fi, tanto criticati da buona parte del fandom, avevano ricondotto senza ombra di dubbio i R.E.M. alla loro versione del rock che, pur attingendo a sonorità a tratti grunge e punk, era assolutamente personale e inimitabile. Se Tom Smith & co inserissero a sorpresa una cover di I Took Your Name o The Wake-Up Bomb, i più giovani si renderebbero conto di non essere di fronte a un b-side del settimo album? Il dubbio sembra più che legittimo e fanno emergere altre due certezze: c’è bisogno di un Michael Stipe feat. Editors, o di un Editors feat. Michael Stipe, e di vederlo interpretare dal vivo, possibilmente più e più volte, e che venga immortalato in un album live che manca inspiegabilmente dalla discografia degli Editors, ora definitivamente usciti dall’ombra dei grandi che li hanno preceduti. L’evoluzione che ha portato il gruppo alla formazione attuale ha permesso di esplorare nuove direzioni che ha dato i loro frutti, conducendoli a un punto della loro carriera in cui non ha assolutamente nulla da invidiare a chi ha segnato la storia della musica. Quello del Fabrique di Milano non è stato sicuramente il concerto migliore tra quelli italiani proposti dalla band dai tempi della sua formazione, ma ne testimonia l’ottimo “stato di salute” che potrebbe regalare davvero molte soddisfazioni.
UPDATE:
A distanza di un paio di mesi sembra doveroso aggiungere un update dopo il tour UK-Irlanda: la setlist è stata studiata meglio, le transizioni ora sono assolutamente più organiche (e il passaggio da Violence a No Harm è praticamente perfetto), ha fatto il suo debutto in scena Silence confermandosi come uno dei brani migliori degli ultimi anni, si è persa un po’ di leggerezza, si è guadagnato in atmosfera, i brani nuovi stanno trovando la propria dimensione dal vivo e sembrano attendere la dimensione festivaliera per esprimere tutto il proprio potenziale, e la formazione attuale sembra aver trovato l’equilibrio, non solo sonoro, ideale sul palco.
Nel vasto catalogo di Netflix è passato quasi inosservato il debutto di una divertente serie canadese intitolata Fakes, una versione teen di Good Girls che tiene alta l’attenzione nonostante delle interpretazioni non eccelse.
Al centro della trama ci sono due studentesse apparentemente molto diverse tra loro: Zoe Christensen (Emilija Baranac), cresciuta troppo in fretta a causa di un padre alcolista che ha indurito il suo carattere e l’ha resa più determinata nel suo tentativo di ottenere un futuro migliore, e la popolare Rebecca Li (Jennifer Tong), che ha una famiglia ricca e dalle dinamiche complesse, ambiente che le fa vivere l’adolescenza con una pressione forse eccessiva a causa delle aspettative di una madre assente e un padre distante. Quando la narrazione prende il via le due protagoniste sono state appena arrestate e gli episodi ripercorrono, mostrando anche le due diverse prospettive su quanto accaduto, gli eventi che le hanno rese delle criminali impegnate a stampare documenti falsi. A complicare ancora più la situazione è la presenza di Tryst (Richard Harmon), un giovane che investe nella loro “attività”, e una serie di contrattempi e ostacoli che potrebbero mettere a rischio il desiderio di entrambe di ottenere una chance per realizzare i propri sogni finito il liceo.
Un ritmo incalzante, ben accompagnato dalla colonna sonora e da una fotografia che spazia dai colori accesi alle atmosfere più dark, trascina lo spettatore nel mondo di Zoe e Becca grazie alla scelta narrativa di proporne i due punti di vista, intrecciandoli, separandoli e conducendo gli spettatori a un epilogo che lascia la speranza di vedere una seconda stagione. Nonostante l’apparente leggerezza, Fakes affronta anche tematiche molto serie con grande onestà, come accade nel duro confronto in famiglia quando Zoe vede il rischio che il fratello ripeta gli errori del padre o nei momenti in cui Becca fa emergere il proprio lato più vulnerabile a causa della freddezza della madre, riuscendo inoltre a non spingersi mai troppo oltre le righe.
L’enigmatico Tryst è ben interpretato da Harmon, conosciuto dal pubblico televisivo per The 100, e Baranac e Tong hanno saputo trovare il giusto feeling per proporre due coetanee che si incontrano, scontrano, litigano e si sostengono a vicenda. Le loro interazioni sostengono la serie creata da David Turko con grande freschezza, tratteggiando un mondo adolescenziale in cui feste, incomprensioni tra fratelli e sorelle, amori e lezioni per casa scandiscono la loro quotidianità. Tra serietà e follia, tra sguardi rivolti dritti in camera e momenti di introspezione, sono le scene più inaspettate a risultare più esilaranti e Matreya Scarrwener, con la sua amante del teatro Sally, regala alcune delle risate più immediate.
Fakes, nonostante la sua esteriorità superficiale, propone un interessante ritratto di una generazione in cui nessuno si propone agli altri come è veramente e la verità e le bugie trovano spazio nella loro vita in egual misura, lasciando sempre in dubbio se esista una verità o se ogni ricostruzione dei fatti sia falsa come le patenti stampate in casa.
I Depeche Mode hanno annunciato, durante un evento che si è svolto a Berlino, la pubblicazione del nuovo album e un tour mondiale nel 2023 che farà tappa anche in Italia con tre date. Il Memento Mori Tour affiancherà infatti l’imminente 15° album in studio della band, Memento Mori, in uscita nella primavera del 2023.
Dave Gahan e Martin Gore hanno svelato oggi che il tour, presentato da Live Nation, inizierà con una serie speciale di date limitate alle arene nordamericane a partire dal 23 marzo, prima che la band si diriga in Europa per il tour estivo negli stadi. In Italia sono previste le date organizzate il 12 luglio Stadio Olimpico – Roma, il 14 luglio Stadio San Siro – Milano e il 16 luglio Stadio dall’Ara – Bologna.
Le date in Nord America faranno tappa al Madison Square Garden di New York, allo United Center di Chicago, al Kia Forum di Los Angeles e alla Scotiabank Arena di Toronto. La band inizierà poi il tour europeo negli stadi il 16 maggio, con tappe che includono lo Stade de France di Parigi, lo Stadio Olimpico di Berlino, lo Stadio San Siro di Milano e il Twickenham Stadium di Londra. Per ulteriori informazioni sull’itinerario del tour e sulle date di vendita dei biglietti, visitare il sito depechemode.com.
A
partire dalle ore 10.00 di giovedi 6 ottobre, i biglietti per le date
italiane saranno disponibili solo per gli utenti iscritti a My Live
Nation. Per accedere alla presale basterà registrarsi gratuitamente su livenation.it.
Parlando di Memento Mori, Martin Gore ha commentato:
Abbiamo iniziato a lavorare a questo progetto all’inizio della pandemia e i suoi temi sono stati ispirati direttamente da quel periodo. Dopo la scomparsa di Fletch, abbiamo deciso di continuare perché siamo sicuri che questo è ciò che avrebbe voluto, e questo ha davvero dato al progetto un ulteriore livello di significato”. Dave Gahan ha aggiunto: “Fletch avrebbe amato questo album. Non vediamo l’ora di condividerlo presto con voi, e non vediamo l’ora di presentarlo dal vivo durante gli spettacoli del prossimo anno.
I fan di Bob Dylan potranno presto acquistare un nuovo libro dell’artista vincitore, nel 2016, del premio Nobel per la Letteratura: a novembre sarà infatti in vendita The Philosophy of Modern Song.
Il volume pubblicato da Simon & Schuster proporrà un’analisi della natura della musica popolare. Dylan ha iniziato a scrivere il libro nel 2010 e firma oltre 60 saggi focalizzati sulle canzone di altri artisti, tra cui Elvis Costello, Stephen Foster, Hank Williams e Nina Simone.
Bob Dylan analizza ogni elemento che compone la canzone e spiega persino i vari generi musicali, svelando come ad esempio il bluegrass abbia dei legami con l’heavy metal.
La casa editrice ha anticipato che i saggi, pur essendo sulla musica, sono in realtà delle meditazioni e delle riflessioni sulla condizione umana. Tra le pagine ci saranno inoltre 150 foto scelte con grande cura e una serie di riff onirici che, insieme, somigliano a un poema epico e aumentano la trascendenza dell’opera.
Raccontare la storia di un’icona non è mai semplice e Andrew Dominik ha accettato la sfida con Blonde, film che prova a raccontare la storia di Marilyn Monroe ispirandosi al romanzo scritto da Joyce Carol Oates e sfruttando l’ottima performance di Ana de Armas.
Destinato a far discutere con la sua rappresentazione senza filtri e in cui gli eccessi, tragici e durissimi, trovano più spazio rispetto ai momenti felici, il film prodotto per Netflix propone in quasi tre ore una rappresentazione di un’eroina tragica sfruttata e abusata, una fiaba nera in cui la giovane innocente viene divorata dal mondo di Hollywood fatto di apparenza, luci brillanti e poco rispetto per l’interiorità e l’intelligenza di chi ha avuto la (s)fortuna di nascere bellissima.
Blonde getta le basi della tragedia che diventerà la vita di Marilyn dando un po’ di spazio alla sua infanzia all’insegna della disperata ricerca di amore che contraddistinguerà anche la sua vita da adulta. Gli alti e bassi della star emergente vengono tratteggiati seguendo le sue relazioni con gli uomini da chi usa il suo corpo in cambio di opportunità a chi professa amore libero e riempie per la prima volta un vuoto emotivo che contraddistingue la sua quotidianità, passando per chi diventa violento per gelosia e chi invece ne apprezza un’interiorità rimasta spesso in ombra senza però riuscire a gestirne gli sbalzi emotivi, arrivando poi alla discussa relazione con il presidente John Fitzgerald Kennedy che contribuisce alla sua definitiva resa nei confronti di un destino fin troppo spietato.
Dominik sembra giocare in modo costante con l’idea che tutti, anche gli spettatori contemporanei, siano in parte colpevoli di quanto accade alle star come Marilyn, ridotte contro il loro volere a uno strumento per guadagnare, intrattenere e private dei loro diritti, persino a tratti della propria dignità. Gli scatti rabbiosi dell’attrice, grazie a un’interpretazione di Ana de Armas attenta a non superare mai il limite anche nei momenti più estremi, diventano così un grido di denuncia e di rabbia nei confronti di una società che rende unidimensionali gli esseri umani, trasformandoli in un’immagine che nasconda ogni possibile difetto per proporre un ritratto di vuota perfezione che diventa una condanna per chi cerca di ottenere rispetto e difendere i propri diritti e la propria dignità. La protagonnista incarna bene l’insieme di innocenza e dolore necessario a sostenere la narrazione tratteggiata dalla scrittrice e dal filmmaker in cui si porta sugli schermi la creazione di un personaggio, a scapito della persona.
Non tutto funziona nel mostrare la trasformazione di Norma Jean Baker in Marilyn Monroe e, nonostante le sequenze che mostrano i problemi mentali della madre e l’abbandono subito da bambina, il vuoto che contraddistingue l’esistenza dell’attrice che la porta inizialmente ad accettare abusi sessuali e situazioni, decidendo poi di sfruttare la sessualità per ottenere ciò che vuole, rimane più un elemento metaforico che una realtà.
Gli elementi inventati o portati all’estremo, come il ménage à trois con i figli di Charlie Chaplin ed Edward G. Robinson, o l’insistenza del regista nell’affrontare le gravidanze in modo fin troppo parziale, penalizzano in modo eccessivo un film che raggiunge in più momenti un’intensità emotiva memorabile, purtroppo limitata da alcune scelte registiche discutibili come quelle legate alla relazione con JFK che assumono caratteristiche quasi vicine alle allucinazioni.
Blonde riesce tuttavia, nonostante i suoi difetti, a proporre una triste e realistica rappresentazione della nascita di un mito il cui lato oscuro è rimasto sempre in secondo piano, volontariamente o a causa della semplice ignoranza in materia, senza dare l’attenzione alle conseguenze a lungo termine. La suggestiva colonna sonora firmata da Nick Cave e Warren Ellis, la fotografia di Chayse Irvin e le interpretazioni di alto livello di tutti i membri del cast, contribuiscono a rendere il film un’opera interessante ricca di spunti su cui riflettere a lungo.
Paolo Virzì torna alla regia con un film ambizioso: Siccità intreccia infatti più storie sullo sfondo di una Roma alle prese con una mancanza di pioggia che rende la vita di tutti complicata e a volte inaspettata.
Tra i protagonisti ci sono Antonio che, dopo aver ucciso la compagna, non sembra più interessato alla libertà; Loris che affronta i fantasmi del passato; l’attore Alfredo che cerca di aprire un nuovo capitolo della sua carriera sfruttando i social e sua moglie Mila che lavora in un supermercato e va alla ricerca di amore; la dottoressa Sara che si ritrova a combattere contro una malattia infettiva che semina morte e suo marito Luca che ha riallacciato i rapporti con Mila; l’infermiera Giulia che aspetta un figlio e ha delle ferite emotive che non si sono ancora rimarginate, e altre esistenze che si intrecciano e influenzano a vicenda, spaziando tra classi sociali e situazioni sentimentali molto diverse tra loro.
Siccità, sfruttando un po’ le emozioni suscitate durante il periodo della pandemia, prova a tratteggiare il ritratto di una società sospesa tra passato e presente, tra voglia di rivalsa e accettazione di un destino infausto che rischia di minare ogni speranza, il tutto senza mettere in secondo piano le varie sfumature dell’amore, da quello dei genitori per i propri figli alla complessità dei sentimenti tra coniugi e partner di vita. La complessa rete di situazioni ed emozioni, in cui non manca una vena di umorismo esilarante e a tratti molto cinico grazie alle interpretazioni di Valerio Mastandrea e Silvio Orlando, entrambi autori di una performance molto naturale che non appare mai forzata nemmeno nei momenti più surreali .
I personaggi, con un buon equilibrio tra momenti realistici e passaggi onirici, si muovono per le strade e i luoghi più iconici di Roma, mostrando una versione della città in cui le luci degli appartamenti lussuosi si scontrano con realtà disagiate, aride e abitate da insetti ed esseri umani che hanno fatto posto anche a livello emotivo alla siccità che ha colpito la capitale.
Virzì sfrutta bene la bravura dei propri interpreti e la fotografia, sempre attenta e suggestiva firmata da Luca Bigazzi, riuscendo nel suo tentativo di far emergere difetti e contraddizioni di Roma e dei suoi abitanti, pur perdendo in più momenti il controllo della narrazione che si ostacola da sola con una struttura in cui non tutti i tasselli vengono sviluppati in modo soddisfacente, come accade con la parte del racconto dedicato al figlio di Alfredo e Mila o ad alcuni apassaggi dell’odissea di Antonio, mentre altri elementi come la star interpretata da Monica Bellucci che appare una presenza piuttosto stereotipata e, nell’insieme del racconto, superflua.
La colonna sonora di Franco Piersanti accompagna bene Siccità fino al suo epilogo catartico in cui tutti i percorsi individuali, dopo essersi intrecciati e a tratti scontrati, giungono a un finale più o meno convincente, contribuendo al buon risultato ottenuto dalla nuova fatica di Virzì che, anche nei momenti più deboli, riesce comunque a far riflettere con intelligenza e la giusta dose di ironia mostrando esseri umani assettati, non solo a causa della mancanza di acqua.
L’11 novembre uscirà Only The Strong Survive (Columbia Records/ Sony Music), il nuovo album di Bruce Springsteen contenente 15 grandi successi soul, reinterpretati dall’artista.
L’album uscirà in digitale, in versione CD e in DOPPIO LP ed è già disponibile in pre-order.
Only The Strong Survive celebra la musica e i leggendari cataloghi di Motown, Gamble and Huff e Stax: al suo interno, l’inconfondibile voce di Bruce Springsteen e i contributi musicali di The E Street Horns, gli arrangiamenti degli archi realizzati da Rob Mathes e i cori di Soozie Tyrell, Lisa Lowell, Michelle Moore, Curtis King Jr., Dennis Collins e Fonzi Thornton. Il brano I Forgot to Be Your Lover sarà arricchito dalla voce di Sam Moore.
Primo singolo estratto dal nuovo progetto musicale è Do I Love You (Indeed I Do), originariamente interpretato e scritto da Frank Wilson, da oggi in digitale e in rotazione radiofonica.
Ecco il video diretto da Thom Zimny:
Springsteen ha dichiarato:
Volevo fare un album in cui cantare e basta. E quale musica migliore, per fare tutto questo, se non il repertorio americano degli anni sessanta e settanta? Ho preso ispirazione da Levi Stubbs, David Ruffin, Jimmy Ruffin, the Iceman Jerry Butler, Diana Ross, Dobie Gray, Scott Walker, tra gli altri. E ho provato a rendere giustizia a tutti loro e a tutti gli spettacolari autori di questa musica gloriosa. Il mio obiettivo è permettere al pubblico moderno di fare esperienza della bellezza e gioia di queste canzoni, così come ho fatto io fin dalla prima volta che le ho sentite. Spero che amiate ascoltarle tanto quanto ho amato io realizzarle.
The Boss ha annunciato l’album con un video messaggio in cui si rivolge ai fan:
Realizzato al Thrill Hill Recording in New Jersey, l’album è prodotto da Ron Aniello, con Rob Lebret come ingegnere del suono e Jon Landau come produttore esecutivo.
La tracklist:
Only the Strong Survive
Soul Days feat. Sam Moore
Nightshift
Do I Love You (Indeed I Do)
The Sun Ain’t Gonna Shine Anymore
Turn Back the Hands of Time
When She Was My Girl
Hey, Western Union Man
I Wish It Would Rain
Don’t Play That Song
Any Other Way
I Forgot to Be Your Lover feat. Sam Moore
7 Rooms of Gloom
What Becomes of the Brokenhearted
Someday We’ll Be Together
Il 2023 vedrà il ritorno on the road di Bruce Springsteen and The E Street Band, con una serie di date negli Stati Uniti e in Europa, inclusa l’Italia, che ad ora hanno venduto più di 1.6milioni di biglietti.
È uscita in digitale una nuova speciale versione diSnap, il brano della talentuosa artista armena in gara all’Eurovision Song Contest 2022 Rosa Linn in collaborazione con il giovane cantautore multiplatino da oltre 1 milione di follower su Tik Tok Alfa.
Il singolo, già in radio, ha conquistato questa settimana la Top 35 dell’Airplay radiofonico italiano.
La nuova versione è nata quasi per caso, quando Alfa ha scritto a Rosa Linn su Instagram per confessarle che la sua canzone gli “piaceva da morire”. Da quel momento è iniziata una fitta corrispondenza fra i due giovani talenti che hanno deciso di creare insieme una nuova toccante versione del brano in cui l’artista armena canta per la prima volta anche in italiano.
Alfa ha registrato la sua parte in Italia, ma è riuscito in seguito a raggiungere Rosa Linn in Armenia e a cantare insieme a lei per la prima volta in pubblico la loro nuova versione di Snap
Il brano continua a scalare tutte le classifiche italiane e internazionali: certificato or in Italia, ha accumulato ad oggi 250 milioni di stream, 15 milioni di visualizzazioni su YouTube e oltre 1 milione di video su Tik Tok. Ha raggiunto la Top 10 della classifica globale e italiana di Shazam, la Top 20 della classifica Viral e Globale di Spotify, la Top 30 della classifica Viral Italia di Spotify, la Top 15 dell’Airplay radiofonico europeo (#12) e la Top 35 di quello italiano.
Rosa Linn sta diventando la prima artista musicale armena al mondo e la prima producer donna dell’Armenia. La ventunenne, che vive nel suo Paese natale con la madre, spiega:
[In Armenia] devi far tutto da solo, dall’organizzare concerti a trovare il pubblico… tutto senza agevolazioni e sponsor, perché non ci sono nè infrastrutture nè un’industria musicale. Avevo paura di non riuscirci, ma non ho rinunciato al mio sogno”. Nel 2021 ha pubblicato il suo primo singolo King insieme alla cantautrice multiplatino Kiiara. Grazie a questo primo slancio, l’artista è stata poi selezionata per l’Eurovision e Snap è diventata rapidamente una hit mondiale in continua crescita.
Andrea De Filippi, in arte Alfa, è un cantautore genovese, classe 2000. Con oltre 300mila iscritti al canale Youtube e 1 milione di follower su TikTok, conta oltre 136 milioni di views su Youtube, oltre 334 milioni di stream su Spotify e più di 20 milioni di stream su Apple Music. Le sue canzoni sono state condivise in oltre 5 milioni di video su Tik Tok e i suoi ultimi video sono entrati ai vertici delle tendenze di YouTube. Nel 2021 è stato candidato ai Nastri d’Argento. Ha ottenuto un triplo disco di platino (Cin Cin), tre dischi di platino (Testa tra le nuvole, Pt.1, Sul più bello, TeStA Tra Le NuVoLe, pT2) e sei dischi d’oro.
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