Am I OK? – Recensione – Sundance 2022

Dakota Johnson, dopo Cha Cha Real Smooth, offre al Sundance 2022 un’altra interpretazione di ottimo livello con Am I OK?, il film diretto da Stephanie Allynne e Tig Notaro.
L’attrice ha la parte di Lucy, una trentaduenne che ha un grande talento come artista ma trascorre le sue giornate lavorando senza entusiasmo come receptionist in una spa. La sua amica Jane (Sonoya Mizuno) sembra invece avere le idee chiare riguardanti ciò che vuole nella vita e nel suo futuro c’è una promozione che la porterà dall’altra parte dell’Oceano, a Londra, programmando così il suo trasferimento nel Regno Unito insieme al fidanzato Danny (Jermaine Fowler).
La prospettiva di dover fare i conti con l’assenza dell’amica porta Lucy a riflettere sulla propria vita, ammettendo per la prima volta a se stessa, e agli altri, di essere attratta dalle donne, cercando così il coraggio di avvicinarsi alla collega Brittany (Kiersey Clemons).

La sceneggiatura di Lauren Pomerantz compie un buon lavoro nel mostrare come si modificano gli equilibri esistenti da anni quando si inizia a mettere in dubbio ciò che si riteneva un punto fisso nella propria vita. Dakota Johnson sa trasmettere con bravura le incertezze e il senso di vulnerabilità di Lucy dopo aver avuto il coraggio di ammettere la propria omosessualità, ponendo fine così ai continui tentativi della sua amica di farle compiere dei passi in avanti nelle sue relazioni. La trentenne, complicata e sensibile, diventa una presenza realistica e con cui è facie provare empatia grazie agli sguardi e alla presenza scenica della sua interprete che possiede il mix giusto di fascino e innocenza. La scena in cui Lucy dà spazio alla sua attrazione per Brittany e l’insicurezza che contraddistingue le giornate successive sono delineate in modo intelligente per non far sembrare mai la protagonista ingenua e immatura, ma semplicemente un po’ “persa” in una realtà che cerca di conoscere. La distanza che si forma con la pragmatica Jane, portata sullo schermo senza particolari sbavature da Sonoya Mizuno, riassume con una certa efficacia quello che spesso accade quando un’amicizia di lunga data si scontra con gli inevitabili cambiamenti che avvengono da adulti e Am i OK? dà spazio all’incertezza che si forma quando tutto è nuovo, dalle risposte da dare ai messaggi alle incomprensioni che possono dividere per sempre o far allontanare.

Il film sceglie un approccio lineare alla narrazione, accompagnata da una convincente colonna sonora, e compie forse l’errore di non osare mai troppo, proponendo così un racconto semplice e a tratti emozionante che non sorprende, pur suscitando affetto per le protagoniste e un po’ di nostalgia per quei periodi della vita contraddistinti da un futuro ancora tutto da decidere e contraddistinto da tante strade aperte da percorrere.

Navalny – Recensione – Sundance 2022

Nei giorni in cui il nome di Alexei Navalny è tornato tra le pagine di cronaca, dopo le accuse delle autorità russe di essere un terrorista, al Sundance 2022 è stato presentato il documentario dedicato all’avversario di Vladimir Putin, progetto (con merito) premiato con numerosi riconoscimenti in questa edizione del festival.

Il regista Daniel Roher ha avuto modo di intervistare e seguire l’avvocato e politico mentre si trovava in Germania dove, nel 2020, stava ristabilendosi dopo un tentato omicidio compiuto avvelenandolo.
Dopo essere uscito dall’ospedale, Navalny ha collaborato con il giornalista e hacker Christo Grozev, che fa parte del gruppo chiamato Bellingcat, per provare a fare chiarezza su quanto gli è accaduto. Le indagini compiute hanno così portato alla scoperta dell’identità di alcuni uomini che sembravano aver seguito Alexei fino a Tomsk. Uno dei momenti più inaspettati, ed efficaci, del documentario è proprio il momento in cui Navalny si finge un funzionario del governo e chiama i possibili colpevoli fingendo di voler capire perché l’oppositore non sia morto. Uno degli uomini che ha compiuto il viaggio seguendolo in Siberia, Konstantin Kudryavstev, inaspettatamente ammette di aver agito come pianificato, anche se il risultato non è stato quello sperato.
L’attentato è inoltre mostrato grazie al drammatico video girato a bordo dell’aereo dove si trovava il politico quando ha iniziato a fare i conti con i terrificanti dolori fisici, come dimostrano le strazianti urla di Navalny. Sullo schermo spazio poi alla corsa in ospedale, alla lotta della moglie Yulia per provare a vedere il marito e assicurarsi che stia ricevendo le cure necessarie, temendo che la sua permanenza in un ospedale russo potesse rivelarsi mortale, l’intervento di Angela Merkel, il viaggio in Germania e le analisi che hanno portato alla conferma della sostanza, Novichok, usata per provare a far uscire di scena l’avversario di Putin.

Navalny, oltre agli elementi che farebbero la gioia di qualsiasi sceneggiatore di thriller politici, è però molto di più. Fin dall’inizio, infatti, sullo schermo si dà spazio alla personalità di Alexei che ha una visione molto chiara della pericolosità della sua situazione e, nonostante tutto, non perde la sua ironia e la sua determinazione. Nei primi minuti, posto di fronte a una domanda “scomoda”, Navalny si rende conto che la risposta potrebbe essere usata nel caso in cui venisse ucciso. L’attivista, che è un avvocato e ha iniziato la carriera politica per contrastare corruzione e criminalità, sa il valore e l’importanza delle sue parole e delle sue azioni, regalando così in più momenti delle riflessioni importanti sull’importanza delle scelte degli individui sulla società e sul far emergere la verità e lottare per la giustizia.

Roher permette di avvicinarsi alla figura del protagonista della sua opera in modo intelligente ed esaustivo, ripercorrendone la campagna, i comizi in cui è particolarmente attento a far esprimere ai presenti le critiche nei confronti di Putin senza dichiarare frasi che possono incriminarlo, la totale mancanza di rispetto da parte del suo avversario che decide di non pronunciarne mai il nome in segno di disprezzo e superiorità, l’attacco subito nell’aprile 2017 quando gli è stato spruzzato un liquido tossico in viso causandogli dei danni alla vista nell’occhio destro, i raid al suo ufficio e al suo team, l’esclusione da ogni articolo nei quotidiani e servizio televisivo, l’impossibilità di organizzare eventi e il continuo stato di tensione e pericolo che contraddistingue la sua vita quotidiana. Le situazioni proposte spingono inevitabilmente a far riflettere su quanta forza d’animo e resilienza sostengano l’attivista nella sua lotta contro il regime e il documentario permette inoltre di scoprire la prospettiva dei membri della sua famiglia, dalla moglie Yulia ai figli, tra cui la diciannovenne Dasha che studia negli Stati Uniti e sembra aver accettato con grande maturità le conseguenze della lotta del padre, nonostante l’ansia e la malinconia che emergono in alcune delle sue dichiarazioni.

L’atto finale del documentario segue Alexei Navalny dopo la decisione di tornare in patria, mostrando passo dopo passo il viaggio con destinazione Mosca mentre all’aeroporto i suoi sostenitori affrontano le autorità venendo arrestati, respinti e silenziati. La regia di Roher, con un sapiente montaggio che spazia dallo sguardo del protagonista in volo al suo team che assiste agli eventi seguendoli grazie ai telegiornali, non dà spazio alla speranza. L’arresto dell’avversario di Putin, nonostante la razionalità che porterebbe a confidare nella giustizia, è inevitabile mentre Alexei e la moglie cercano di rilassarsi guardando Rick and Morty o scherzano con gli altri viaggiatori chiedendo scusa per i problemi causati.

Il lavoro compiuto dal filmmaker risulta importante e necessario grazie alla sua capacità di equilibrare il lato umano, con le dimostrazioni di affetto nei confronti della moglie persino in tribunale, con quello politico e sociale e impone all’attenzione del pubblico internazionale la figura di un uomo disposto a lottare contro un regime autoritario condividendo un messaggio universale che merita di essere ascoltato, apprezzato e condiviso.

Cha cha real smooth – Recensione – Sundance 2022

Ci sono film imperfetti che riescono, nonostante i loro difetti, a conquistare il cuore degli spettatori e diventare una di quelle opere che si ritorna a guardare più volte nella vita, ottenendo ogni volta lo stesso senso di calore e gioia. Cha Cha Real Smooth fa parte di questa categoria e, dopo la presentazione al Sundance Film Festival 2022, sarà interessante scoprire l’accoglienza che verrà riservata al progetto scritto, diretto e interpretato da Cooper Raiff con una distribuzione a livello internazionale.

Al centro della trama c’è il romantico e ingenuo, persino un po’ immaturo, Andrew (Raiff) che, dopo aver finito i suoi studi universitari si ritrova a tornare a vivere a casa della madre (Leslie Mann), dormendo sul pavimento nella stanza del fratello minore David (Evan Assante), e non risparmiando battute sarcastiche al patrigno Greg (Brad Garrett). Il giovane, che sperava di trovare un lavoro e raggiungere la ragazza che ama a Barcellona, si è invece alle prese con un deludente lavoro in un fast food. A dare una svolta alla sua vita è la scelta di accompagnare David a un Bar Mitzvah dove fa la conoscenza di Domino Dakota Johnson) e di sua figlia, affetta da autismo, Lola (Vanessa Burghardt). La simpatia e la sensibilità di Andrew riescono a conquistare l’attenzione della giovane, che viene emarginata e persino bullizzata dai suoi compagni di scuola, e della madre, oltre a fargli ottenere un lavoro part time come animatore proprio ai Bar Mitzvah dei compagni di scuola del fratello. L’incontro tra Domino, che è fidanzata con Joseph (Raul Castillo), porterà il protagonista a compiere un percorso personale in grado di farlo maturare e iniziare a capire cosa vuole realmente nella sua vita.

Raiff crea con il personaggio di Andrew un personaggio quasi in stile Charlie Brown: sfortunato in amore e nella vita, dall’onestà disarmante, a suo agio più con i ragazzi dell’età del fratello (come sottolinea in modo esilarante una scena nella parte finale del film che lo ritrae in macchina sul sedile posteriore tra i bambini), ancora incerto su cosa vuole nella vita e adorabilmente imperfetto. Il filmmaker è una vera e propria rivelazione in Cha Cha Real Smooth grazie alla sua capacità di creare un feeling realistico ed emozionante con tutti gli altri membri del cast. Cooper accanto a Dakota Johnson crea un misto di attrazione e amore platonico che rende ogni interazione tra i due magnetica e all’insegna di un sentimento dal destino apparentemente segnato fin dall’inizio, mentre con Vanessa Burghardt ed Evan Assante diventa un amico confidente che non tratta quasi mai con superiorità i ragazzini, nonostante la loro giovane età. Le scene con Leslie Mann, inoltre, sono particolarmente ben scritte e interpretate, rendendo credibile il rapporto madre-figlio, e nelle scene in cui è insieme ai coetanei il protagonista incarna tutte le incertezze di una generazione che sogna di cambiare il mondo, ma è bloccata in una realtà insoddisfacente che delude tutte le loro aspettative.

Il personaggio di Andrew, che sostiene l’intera narrazione, è stato scritto in modo davvero brillante e intelligente grazie all’equilibrio tra pregi e difetti. Gli spettatori non si trovano così di fronte a un principe azzurro pronto a difendere i più deboli dall’alto di una sua superiorità fisica e morale, ma un ragazzo normale che perde la pazienza quando ha una giornata storta, beve troppo, non è nemmeno particolarmente bravo a letto, ma è un amico vero, fedele, leale e con un animo romantico che gli permette di provare empatia ed entrare in sintonia con il prossimo.
Dakota Johnson, dopo The Lost Daughter, torna a interpretare una madre e riesce a delineare una giovane donna vulnerabile e alle prese con incertezze e dubbi. Le scene in cui Domino si confida con Andrew fanno emergere con piccoli sguardi e silenzi tutti i dubbi di una persona diventata madre molto presto e che da tempo sta affrontando responsabilità e l’ansia di essere abbandonata e affrontare nuovamente da sola gli ostacoli quotidiania.

Cha cha real smooth si allontana dagli stereotipi e le strade già percorse dalle commedie romantiche per offrire un approccio più realistico, e per questo così emozionante, al significato dell’amore nelle varie fasi della vita, sulle conseguenze delle scelte che compiamo ogni giorno e sull’importanza della resilienza e della forza d’animo che ci spinge ad andare avanti anche nei momenti difficili. La riflessione sul concetto dell’anima gemella, il passaggio da un’idea di amore totalmente ideale e simile alle favole a quello reale, e per questo imperfetto, e un epilogo senza sbavature impongono all’attenzione il talento di Cooper Raiff, un nome sicuramente da tenere d’occhio nei prossimi anni.

Il film si concede il tempo di far compiere a tutti i protagonisti un’evoluzione naturale e mai forzata, contraddistinta da un passo in avanti e tanti indietro, facendo ridere, commuovere e riflettere senza mai risultare stucchevole, prevedibile o banale.
La sceneggiatura ha più di un punto debole, in particolare nella gestione della figura materna e dei suoi problemi, ma il risultato è una storia semplice e al tempo stesso unica, impreziosita da una colonna sonora accativante e da tanti momenti di leggerezza che rendono la visione davvero piacevole e scorrevole, elementi che rendono Cha cha real smooth un’opera destinata a entrare di diritto nella lista dei titoli da non perdere in questo 2022.

Watcher – Recensione – Sundance 2022

Watcher, nonostante un budget non particolarmente elevato e una colonna sonora a tratti invadente, propone un thriller che riesce nel suo scopo di mantenere alta la tensione dall’inizio alla fine.

Chloe Okuno compie il suo esordio alla regia firmando una storia dall’atmosfera quasi claustrofobica nel seguire la giovane Julie (Maika Monroe) dopo il suo arrivo in Romania insieme all’amato Francis (Karl Glusman) ce ha accettato un nuovo lavoro.
La ragazza non conosce la città, la lingua e non ha alcuna amicizia a Bucarest. Il senso di solitudine si trasforma in crescente angoscia quando la ragazza inizia a pensare di essere continuamente osservata e seguita da un uomo che vive nell’edificio di fronte al suo. Francis, inizialmente, tiene seriamente in considerazione la sua preoccupazione per poi convincersi che si tratti solo del frutto della sua immaginazione. Julie cerca però di chiarire quanto sta accadendo seguendo il suo presunto stalker, e convidandosi con la sua vicina Irina (Madalina Anea), l’unica che continua a crederle e non pensa sia influenzata dalle notizie riguardanti un serial killer che sta uccidendo le donne in città.

La fotografia firmata da Benjamin Kirk Nielsen costruisce un’atmosfera fredda e rarefatta che sostiene bene l’alone di mistero che circonda la storia della protagonista, mantenendo il dubbio riguardante la possibilità che si tratti di paranoia o che ci sia qualcosa di vero nelle sue paure.
La sceneggiatura firmata da Zack Ford prosegue senza tentennamenti nel suo alternare l’idea di osservatore e oggetto dell’ossessione altrui, sfruttando lo sguardo di Maika Monroe che fa emergere nel suo sguardo la sua angoscia e al tempo stesso determinazione.
Senza particolari sorprese, ma giocando bene le sue carte, Watcher propone un thriller che soddisfa gli appassionati del genere sfruttando l’idea di isolamento e solitudine che vive la protagonista.

Good Luck To You, Leo Grande – Recensione – Sundance 2022

Emma Thompson regala con Good Luck to You, Leo Grande una delle migliori interpretazioni della sua carriera portando sugli schermi un personaggio femminile attuale e necessario nel panorama cinematografico.
La sceneggiatura firmata da Katy Brand conquista e sembra fin dall’inizio quasi un’opera teatrale in grado di usare i dialoghi per raccontare una storia al femminile all’insegna della scoperta di se stessa e della propria sessualità.
L’attrice ha infatti la parte di un’insegnante rimasta vedova, che si fa chiamare Nancy Stokes, che decide di assumere un escort, Leo Grande (Daryl McCormack), per avere per la prima volta nella sua vita un orgasmo.

Il film diretto da Sophie Hyde è costruito proponendo i vari incontri tra i due, passando da insicurezze a imbarazzi alla progressiva conoscenza che li porta ad aprirsi e confrontarsi sui propri desideri e sulle esperienze di vita. Nancy affronta sensi di colpa, la quasi inesistente autostima nel guardarsi allo specchio e la consapevolezza di non avere quasi nessuna esperienza dal punto di vista sessuale. Leo, invece, assume quasi un ruolo da terapista, stabilendo però delle regole ben precise per quanto riguarda le sue interazioni con la cliente. I dialoghi, scritti in modo brillante e realistico, sostengono l’evolversi del rapporto tra Leo e Nancy che non appare mai forzato e nemmeno stereotipato, allontanandosi da ogni possibile rappresentazione all’insegna della frustrazione o dello sfruttamento.

Il feeling che si stablisce tra Thompson e McCormack appare perfetto per reggere la narrazione che alterna seduzione, fragilità e scoperta di se stessa e del potere del piacere nel trovare il giusto equilibrio nella propria vita. L’atto finale del film, con un significativo confronto con un’ex studentessa, avrebbe forse bisogno di un passaggio intermedio per giustificare la scelta di Leo di confrontarsi nuovamente con Nancy, tuttavia il grande talento di Emma Thompson e la bravura della regista non fanno scivolare mai le situazioni nel cattivo gusto o nella prevedibilità, confezionando una storia di maturazione e crescita personale che non si rivolge solo a un pubblico femminile e di mezza età, proponendo riflessioni e situazioni universali.

Fresh – Recensione – Sundance 2022

Fiabe come Hansel e Gretel e Pollicino, senza dimenticare il lupo cattivo di Cappuccetto Rosso, fin dall’infanzia hanno introdotto nella mente dei bambini l’idea dell’orco, del lupo cattivo pronto a mangiare l’innocente di turno. Fresh, l’opera prima della regista Mimi Cave, ne propone ora una versione riveduta e aggiornata al femminile delineando una lotta per la sopravvivenza contro una presenza maschile all’insegna della manipolazione e che porta all’estremo il concetto di donna oggetto.

Il film inizia come una classica commedia romantica: Noa (Daisy Edgar-Jones) è alle prese con appuntamenti deludenti e relazioni destinate a concludersi ancora prima di iniziare. A cambiare la situazione è l’incontro fortuito in un supermercato con Steve (Sebastian Stan), un chirurgo plastico che la conquista con il suo umorismo, attenzioni e capacità di farla sentire a proprio agio. La sua migliore amica Mollie (Jojo T. Gibbs) pensa che ci sia qualcosa di strano in quell’uomo apparentemente perfetto, ma questo non frena Noa davanti alla possibilità di trascorrere con lui un weekend romantico in mezzo alla natura senza poter sapere l’orrore che dovrà affrontare.
La sceneggiatura di Lauryn Kahn costruisce bene il cambio di registro e la regia di Cave è davvero attenta ed efficace nella sua costruzioni di immagini disturbanti e dallo stile affascinante, quasi ipnotizzante in certi passaggi. Il punto debole dell’opera è tuttavia nel modo in cui i vari atti si svolgono con un ritmo e una veridicità poco costanti, arrivando a un epilogo affrettato dopo un costruzione narrativa ben cadenzata e che si concede il tempo giusto per dare sostanza ai personaggi principali.

A essere promossi a pieni voti sono però i due protagonisti di Fresh. La rivelazione di Normal People Daisy Edgar-Jones riesce a dare intensità e credibilità alla disperazione e alla resilienza, anche nei momenti più difficili, di Noa. L’evoluzione da giovane un po’ ingenua a manipolatrice alla pari del suo carnefice è ben costruita e gestita dall’attrice che infonde in egual misura vulnerabilità e forza al suo personaggio. Sebastian Stan si conferma poi come uno degli attori più coraggiosi della sua generazione mettendosi alla prova, dopo la parte di Tommy Lee nella serie Pam & Tommy in arrivo a febbraio, con una parte estrema che riesce a mantenere “umana” nonostante la sua mostruosità e mancanza di morale. La preparazione dell’attore è evidente nei gesti e nelle piccole sfumature che rendono Steve uno psicopatico carismatico e totalmente convinto di essere “normale”.
I personaggi secondari, dalla migliore amica alla moglie del protagonista, avrebbero forse avuto bisogno di maggior spazio per risultare essenziali e utili alla narrazione, tuttavia il lungometraggio riesce a catturare l’attenzione con il suo portare all’estremo una società in cui le donne fanno ancora i conti con uomini che le considerano inferiori e da sfruttare a proprio piacimento, quasi fossero di loro proprietà.
Pur non essendo del tutto memorabile, Fresh farà sicuramente parlare per le performance del suo cast, per il talento della regista e per un racconto provocatorio e in più momenti destinato a un pubblico dallo stomaco forte.

Summering – Recensione – Sundance 2022

James Ponsoldt, autore di opere interessanti come The Spectacular Now e la serie Sorry for your Loss, firma con Summering un racconto leggero e che porta sullo schermo l’avventura estiva di un gruppo di ragazzine che stanno per addentrarsi nell’adolescenza, consapevoli che un periodo importante della loro vita sta per concludersi. Dopo il flop di The circle, il filmmaker firma così una storia semplice, forse fin troppo, che regala comunque qualche sorriso e delle ottime interpretazioni da parte del cast di tutte le età.


Dina, Lola, Daisy, e Mari (Lia Barnett, Madalen Mills, Eden Grace Redfield, e Sanai Victoria ) stanno vivendo insieme gli ultimi giorni dell’estate prima di iniziare la scuola media e, mentre cercano di godersi gli ultimi momenti di libertà, si imbattono inaspettatamente in un cadavere di uno sconosciuto. Temendo di essere costrette a trascorrere le ultime giornate estive rispondendo alle domande dei poliziotti e sotto osservazione da parte delle loro madri che potrebbero pensare che siano traumatizzate, le protagoniste decidono di non dire nulla e indagare sull’identità dell’uomo, provando anche a capire cosa gli è accaduto. La loro indagine, tuttavia, le porterà a capire qualcosa in più su se stesse e avvicinerà inaspettatamente le loro madri, arrivando a un epilogo che farà emergere i loro desideri nascosti e celebrerà la loro forza interiore.

Impossibile non pensare a Stand by Me, paragone comunque troppo penalizzante nei confronti dell’opera, durante la visione di Summering che, con un elemento sovrannaturale non del tutto giustificato e alcune sequenze “magiche”, trova la sua forza nelle interazioni tra madri e figlie e tra le ragazzine. Le giovanissime interpreti sono davvero brave e convincenti e Lia Barnett, in particolare, si distingue con un’espressività e una maturità che vanno oltre la sua età anagrafica nelle scene in cui Daisy affronta i problemi in famiglia. Le sue colleghe sono però altrettanto convincenti e naturali, non risultando mai sopra le righe nelle loro reazioni ed espressioni. Ad affiancarle nel ruolo delle madri ci sono Megan Mullally, che suscita la voglia di scoprire qualche dettaglio in più sul suo personaggio grazie alla gran quantità di sfumature che riesce a infondere in una presenza piuttosto limitata sullo schermo, Lake Bell che propone un mix di austerità e sensibilità, Sarah Cooper e Ashley Madekwe, altrettanto brave nel relazionarsi con le rispettive “figlie”.


Il film non faticherà a conquistare gli spettatori più giovani e le famiglie grazie al realismo con cui tratteggia i dubbi e le ansie che contraddistinguono i primi passi verso l’età adulta, suscitando al tempo stesso un po’ di nostalgia per la spensieratezza vissuta nell’infanzia. Ponsoldt sembra essere riuscito a sfruttare al meglio una sceneggiatura, firmata da Benjamin Percy, che in più momenti perdi di vista i propri obiettivi introducendo elementi e situazioni non essenziali alla narrazione, e Summering risulta una visione davvero piacevole che sfiora le corde dell’anima degli spettatori, senza lasciare però realmente il segno.

892 – Recensione – Sundance 2022

John Boyega dimostra una grande maturità con la sua interpretazione nel film 892, ispirato alla storia vera di Brian Brown-Easley.
Abi Damaris Corbin, che ha firmato la sceneggiatura insime a Kwame Kwei-Armah, ha attinto all’articolo di Aaron Gell They Didn’t Have to Kill Him per raccontare una storia di disperazione e mancanza di sostegno da parte delle autorità.
Al centro della trama c’è un ex marine che si è visto negare il suo assegno di disabilità mensile, che ammonta ai 892 dollari che danno titolo al progetto, e si ritrova alle prese con frustrazione, rabbia e angoscia nel pensare al futuro della figlia.
Brian decide quindi di entrare in una banca e cercare di ottenere l’attenzione dei media avvicinandosi a una cassiera, Rosa Diaz (Selenis Leyva), e scrivendo un biglietto in cui sostiene di avere una bomba. L’obiettivo dell’uomo non è però compiere una rapina e lascia uscire tutti dalla struttura, con l’eccezione di Rosa e di un’altra dipendente, Estel Valerie (Nicole Beharie). Brian cerca, inutilmente, di ottenere la visibilità che pensa di meritare e contatta la reporter Lisa Larson (Connie Britton). Le autorità, invece, sembrano essere divise sull’approccio da seguire: Eli Bernard (Michael Kenneth Williams) vorrebbe negoziare e raggiungere una conclusione pacifica, mentre la polizia non sembra disposta ad ascoltare le motivazioni dell’uomo coinvolgendo anche la moglie di Brian, Cassandra (Olivia Washington), che si ritrova a vivere l’esperienza insieme alla figlia Kiah (London Covington) interagendo con persone apparentemente prive di empatia.


Boyega è convincente in ogni momento della drammatica storia, dalla tenerezza con cui interagisce nei flashback e nelle telefonate con Kiah, agli attimi in cui perde totalmente il controllo a causa della crescente frustrazione nel sentirsi ignorato, sottovalutato e sminuito come essere umano dopo essere stato a lungo a servizio della nazione. L’attore britannico passa dall’estrema vulnerabilità a una rabbia minacciosa, oltre a essere davvero intenso nella scena in cui Brian ammette di essere già consapevole di quale sarà l’epilogo della situazione.
Accanto a lui Leyva e Beharie sono altrettanto brave nel delineare due donne divise tra l’empatia che provano nei confronti dell’uomo e il terrore di subire le drammatiche conseguenze delle sue scelte.
Michael Kenneth Williams, nonostante la presenza limitata sullo schermo, è in grado di tratteggiare una presenza sensibile in un contesto spietato e poco attento ai bisogni del prossimo e la sua performance ricorda il talento del compianto attore. La naturalezza e simpatia di London Covington aggiunge un po’ di leggerezza all’intensa storia, mentre Connie Britton e il resto del cast impegnato nelle scene nella redazione non lasciano purtroppo il segno, tuttavia l’attenzione di Corbin alla regia valorizza le performance di tutti gli interpreti.

Il montaggio di Chris Witt, che intreccia anche dei brevi significativi flashback a ciò che accade all’interno della banca, mantiene alta la tensione fino all’epilogo amaro che fa riflettere sull’assistenza che viene fornita ai veterani al loro ritorno a casa, argomento molto attuale e importante.
892 sfrutta a proprio favore la memorabile performance di Boyega per proporre una storia che merita di essere raccontata e conosciuta.

When You Finish Saving the World – Recensione – Sundance 2022

Jesse Eisenberg si mette alla prova come regista di un lungometraggio con When You Finish Saving the World e le ottime interpretazioni del cast riescono a mettere in secondo piano alcuni difetti nella gestione della narrazione.
Juliane Moore interpreta nel film Evelyn Katz, a capo del rifugio per donne in difficoltà Spruce Haven, mentre la star di Stranger Things Finn Wolfhard ha il ruolo di Ziggy, il figlio della donna che trascorre le sue giornata componendo canzoni e cercando di conquistare il cuore di una sua compagna di scuola, parte affidata ad Alisha Boe, molto coinvolta dal punto di vista politico e sociale.
Ziggy, invece, teme che condividere delle posizioni politiche durante le sue dirette sulla piattaforma HitHat potrebbe causargli qualche problema con i suoi 20.000 follower, cifra che ama ripetere con estremo orgoglio a chiunque, provenienti da tutto mondo. Madre e figlio sembrano incapaci di comunicare tra loro, dando vita a incomprensioni e a una freddezza che contraddistingue il loro rapporto. Evelyn prova quindi a soddisfare il suo istinto materno occupandosi di Kyle (Billy Bark), il brillante figlio di un’ospite della struttura, mentre Ziggy si evolve grazie al confronto con l’amata Lila. Entrambi non sembrano però in grado di trovare in famiglia quel tassello mancante nella propria esistenza di cui sentono la mancanza, provando a colmare quel vuoto altrove.

Eisenberg, regista e sceneggiatore del progetto, mette molto di se stesso e dei ruoli avuti durante la sua carriera nella personalità dei protagonisti e nella prospettiva un po’ distaccata e cinica alla vita. Julianne Moore è davvero brava nell’interpretare una donna che si occupa di persone in difficoltà, pur apparentemente non entrando in connessione emotiva con le donne che la considerano la responsabile della loro salvezza. Il personaggio di Evelyn, con le sue difficoltà nel relazionarsi con Ziggy e al tempo stesso la voglia di essere una madre presente, risulta realistico anche nei momenti in cui compie degli errori apparentemente incomprensibili per una donna nella sua situazione. Bryk, nonostante una minore espressività, regge davvero bene il confronto con l’esprienza dell’attrice nelle conversazioni tra i loro due personaggi e le scene con Evelyn e Kyle, come quella al ristorante, fanno emergere il lato meno intransigente e sensibile della protagonista. Wolfhard è altrettanto bravo nel tratteggiare un teenager alla ricerca della propria identità e consapevole della propria mancanza di preparazione e attenzione per le tematiche sociali, oltre a offrire la giusta dose di insicurezza tipica degli anni dell’adolescenza.


When You Finish Saving the World riesce con bravura a proporre la storia di due persone narcisiste che faticano a entrare in connessione con il prossimo, ma la narrazione ha più di un momento debole e passaggio a vuoto. L’ipocrisia che contraddistingue le azioni e la vita dei protagonisti è gestita bene, tuttavia la presenza fin troppo superficiale del padre e marito Roger (Jay O. Sanders), e l’eccessiva stereotipizzazione dei personaggi secondari, tra giovani attiviste e teenager destinati a un futuro segnato dalla realtà in cui sono cresciuti, non permettono al film di lasciare sempre il segno.
Visivamente il film, grazie all’ottimo lavoro del direttore della fotografia Benjamin Loeb, crea un’atmosfera ben in linea con le emozioni dei personaggi. La narrazione si evolve invece in modo a tratti poco scorrevole fino a un epilogo inevitabile e prevedibile, seppur soddisfacente.
Sospeso tra Lady Bird e un racconto in stile Woody Allen, l’esordio di Jesse Eisenberg dimostra il promettente potenziale dieto la macchina da presa dell’attore e sarà interessante scoprire se si metterà alla prova con atmosfere e racconti di diverso genere.

The Princess – Recensione – Sundance 2022

La vita di Diana Spencer è tornata protagonista sul piccolo e grande schermo negli ultimi anni, tra serie come The Crown e il film di Pablo Larraín con star Kristen Stewart, e ora il documentario The Princess sceglie un approccio totalmente nuovo, e molto efficace, agli eventi che hanno preso il via dopo il fidanzamento con il principe Carlo.
Il regista Ed Perkins ha infatti scelto di usare esclusivamente materiali d’archivio, ripercorrendo quanto accaduto tramite la prospettiva di un osservatore esterno, sottolineando in questo modo il ruolo avuto dai mezzi di comunicazione nel delineare un personaggio che è stato amato, criticato, giudicato e poi trasformato in un’icona dall’opinione pubblica.

The Princess si apre con un significativo filmato che mostra l’attenzione dei paparazzi e delle persone comuni alla presenza di Diana a Parigi, poche ore prima della sua morte quando, fuori dall’hotel Ritz, c’era un muro umano pronto a immortalare l’ex moglie di Carlo o vederne rapidamente il volto. Il film ritorna poi ai primi momenti in cui i media hanno iniziato a rivolgere la propria attenzione nei confronti della giovane che sembrava aver conquistato il cuore dell’erede al trono britannico. Assistere all’evoluzione della sua relazione con Carlo, sapendone già la sua drammatica conclusione, obbliga a riflettere sul modo in cui la realtà diventa automaticamente finzione nel momento in cui le persone iniziano a interpretare, analizzare e commentare ogni comportamento, espressione e gesto compiuto in pubblico. Il documentario, pur offrendo un esaustivo riepilogo di quanto accaduto, mostra infatti una giovane trasformata in una principessa perfetta, con commenti legati alle favole e al suo atteggiamento innocente e timido, destinata a diventare la moglie ideale con la sua bellezza, le origini nobili e una personalità più vicina al popolo che alle rigide regole della famiglia reale. Passo dopo passo, tramite spezzoni di telegiornali e titoli dei quotidiani, si rivolge quindi lo sguardo verso un’attenzione che ha portato a un loop da cui apparentemente era impossibile uscire all’insegna della curiosità delle persone comuni nei confronti di una principessa ai loro occhi ideale e ricerca spasmodica di dettagli che potessero confermare questa visione o, al contrario, far emergere scandali perfetti per attirare ancora di più i lettori e gli spettatori. Il documentario non va alla ricerca di una “verità” legata a quanto stava accadendo nella vita reale, dando spazio in modo particolarmente efficace e coinvolgente a un paradosso che ha contraddistinto la vita di Diana: più emergevano elementi legati alla sua vita privata, con una totale mancanza di rispetto della privacy, più la sua esistenza diventava finzione, una creazione dei fan e dei giornalisti che si erano formati un’idea propria, scambiandola per verità.

Il documentario di Perkins non condanna e non giudica, pur facendo intendere tra le righe il punto di vista del filmmaker riguardante quanto accaduto, diventando una visione necessaria per meditare sulle conseguenze della fama e della popolarità. Il carisma e il fascino di Diana l’hanno resa inevitabilmente una vittima dell’attenzione degli altri e, nonostante i suoi tentativi di gestire a proprio favore in più momenti la stampa, è stata proprio lei a pagarne le conseguenze costringendo la società a meditare. The Princess risulta così davvero interessante per andare oltre le apparenze e capire quanto i singoli cittadini siano in parte responsabile della continua invasione della privacy delle celebrità, non solo dei membri della famiglia reale, considerandole erroneamente in base all’imagine che ognuno crea nella propria mente basandosi su notizie riportate e nessuna conoscenza diretta. Nel documentario c’è spazio anche a un momento in cui Sarah Ferguson ammette nel salotto televisivo di Oprah Winfrey di non essere a conoscenza di quanto stesse realmente accadendo nella vita della cognata, sottolineando che era stata molto brava nel non lasciar trapelare alcun dettaglio, eppure l’opinione pubblica era già stata pronta a giudicare condannare o salvare e si era sentita in diritto di esprimere opinioni e commenti. The Princess non aggiunge nulla alla conoscenza che si può avere di Diana Spencer, tuttavia dice molto sulla società in cui ha vissuto e dovrebbe far riflettere sulla direzione che bisognerebbe prendere per suscitare maggiore empatia e rispetto nei confronti del prossimo, celebrità comprese.