La serie russa Dreams of Alice regala con il suo primo episodio, presentato al Canneseries 2021, un’introduzione davvero convincente, e a tratti disturbante, a un mondo in cui realtà e finzione si confondono e scontrano. Gli elementi che compongono la struttura narrativa del progetto sono già stati utilizzati in passato, tuttavia, il risultato finale è particolarmente originale e intrigante.
Gli eventi sono ambientati in una cittadina nell’area nord della Russia, vicino a una base militare segreta, e in cui sembra aleggiare qualcosa di strano e misterioso e che sembra rendere impossibile abbandonare. La giovane Alice affronta terrificanti visioni legate al suo futuro e si ritrova in difficoltà a casa e a scuola, dove viene emarginata e bullizzata. La teenager sogna di andarsene con la sua migliore amica, ma il suo desiderio sembra quasi impossibile da realizzare.
L’attrice Alina Gvasaliya è molto brava nell’interpretare la protagonista e i suoi tanti problemi, emotivi e sociali, ma a lasciare il segno è l’atmosfera di grande impatto creato dalla storia firmata da Anastasiya Volkova con il contributo della fotografia di Ilya Ovsenev. A dare ritmo e a sostenere la complessa e intricata struttura di Dreams of Alice è inoltre il montaggio firmato da Alexandra Koroleva che confonde e crea quel senso di spaesamento e mistero necessario a tenere alta l’attenzione sulla storia.
Il pilot convince e dimostra un ottimo potenziale, ma i tanti elementi che compongono la struttura e l’elemento sovrannaturale legato alla leggenda di quanto accaduto secoli prima alle donne accusate di stregoneria potrebbero causare qualche problema se non gestiti nel migliore dei modi. L’esordio della serie, tuttavia, è davvero interessante e promettente.
Kljun (Awake), presentata in anteprima a Canneseries 2021, prova a fondere elementi sovrannaturali ai classici schemi delle storie di detective, proponendo un mix di indagini e misteri inspiegabili che potrebbe risultare vincente se gestito nel migliore dei modi dagli autori.
L’attrice Ivana Vukovic interpreta Sonja Kljun, una giovane e ambiziosa detective che cerca di dimostrare che un caso indicato come suicidio nasconda qualcosa di più oscuro e misterioso. La donna deve fare i conti con lo scetticismo dei suoi superiori e più di un ostacolo, mentre la figlia inizia a fare dei sogni insoliti che sembrano in grado di predire quello che accadrà in realtà.
L’atmosfera fredda e rarefatta che contraddistingue la serie, enfatizzata dalla fotografia firmata da Dušan Grubin, contribuisce a dare una sfumatura originale agli eventi portati sugli schermi. I titoli di testa, davvero suggestivi e a tratti inquietanti, introducono in modo brillante l’intreccio particolare creato dalla sceneggiatura firmata da Ljubica Lukovic e Matija Dragojević, forse in più passaggi fin troppo complicata. La protagonista è ben interpretata da Vuković che delinea un personaggio femminile spigoloso ed enigmatico che, in più di un momento, ricorda quasi la protagonista di Omicidio a Easttown per la sua capacità di essere se stessa e scontrarsi con un mondo prevalentemente maschile e poco accogliente. Il rapporto con la figlia e con i suoi colleghi saranno due degli elementi narrativi di cui sarà interessante vedere l’evoluzione.
I primi due episodi possiedono comunque un buon potenziale che porta a pensare che Kljun si inserirebbe senza troppe difficoltà nelle proposte internazionali presenti nel catalogo di piattaforme di streaming come Netflix, dove progetti analoghi hanno già ottenuto un buon successo.
Arriva dalla Finlandia la black comedy Mister 8 che regala un approccio inaspettato e a tratti esilarante alle relazioni sentimentali. La serie, presentata a Canneseries 2021, propone una protagonista femminile, Maria (Krista Kosonen), determinata e sicura di se stessa, in grado di gestire in veste di CEO l’azienda di famiglia e ben sette compagni, uno per ogni giorno della settimana. La situazione si complica però dopo l’incontro con Juho (Pekka Strong), che deve trovare un modo per farsi strada nel cuore e nell’affollata quotidianità della donna.
La serie scritta da Vesa Virtanen, Teemu Nikki e Antero Joniken regala una storia ricca di sorprese sovvertendo ogni regola delle comedy romantiche. Maria, a differenza di tantissime protagoniste approdate prima di lei sul grande e piccolo schermo, non va alla ricerca dell’anima gemella e sceglie come partner uomini totalmente diversi tra loro: dall’appassionato di fitness all’intellettuale, dal solitario che vive nella natura al padre di famiglia… L’ottimo feeling creato da Krista Kosonen e Pekka Strang sostiene questa bizzarra rete di relazioni sentimentali e le interazioni tra i vari personaggi maschili, totalmente consapevoli delle dinamiche di cui sono protagonisti, regalando più di un momento esilarante.
A sostenere una sceneggiatura in più momenti fragile e fin troppo irrealistica, è però Krista Kosonen che sa trasformarsi e adattarsi facendo emergere di volta in volta un lato diverso della personalità di Maria, personaggio femminile che decide volontariamente di non sacrificare nessun aspetto di se stessa per il proprio partner e non esita a lasciarsi andare per apprezzare al massimo la sua dimensione privata.
Le prime due puntate intrigano lo spettatore e lasciano la voglia di scoprire in che modo si evolverà questa equazione sentimentale con fin troppi fattori, suscitando la curiosità di scoprire se Maria scivolerà nelle convenzioni sociali o troverà il modo di fare spazio anche per Juho.
Il duo composto da Mariano Cohn e Gastón Duprat, dopo l’esilarante e tagliente Competencia Oficial presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, approdano sul piccolo schermo con Limbo… Hasta que lo decida, serie prossimamente in arrivo su Star+ presentata a Canneseries 2021.
I primi episodi del progetto anticipano una storia che sembra fondere l’atmosfera di Succession a quella di Elite, sostenendosi grazie a un’interpretazione davvero convincente della protagonista Clara Lago.
Al centro della trama c’è la giovane miliardaria Sofia, con una vita lussuosa e senza alcuna preoccupazione. Quando il padre muore, la giovane torna a Buenos Aires dove si trova alle prese con i membri della propria famiglia, le loro aspettative, e il futuro degli affari del padre, di cui inizia a scoprire un lato inaspettato. Sofia, mentre indaga sul proprio passato, inizia a provare il desiderio di dimostrare il proprio valore e userà dei metodi inaspettati per trasformare se stessa e il suo futuro.
La voce narrante di Sofia trasporta gli spettatori nel suo mondo fatto di privilegi e conflitti e Sofia Castello è molto brava nell’interpretare una giovane abituata a un’esistenza sempre portata all’estremo e a conflitti che fanno emergere il suo lato più ribelle e irriverente, soprattutto quando si trova a scontrarsi con i fratelli. Le prime puntate gettano le basi per un’evoluzione che potrebbe risultare molto interessante e ricca di sorprese, oltre a introdurre alcuni indizi legati a misteri legati alla famiglia e al passato del padre.
Il progetto creato da Cohn e Duprat sembra possedere un ottimo potenziale per rivolgersi al pubblico internazionale e la fotografia firmata da Daniel Ortega rende glamour e visivamente d’impatto le scene nei locali, negli spazi della residenza di famiglia e nei negozi più esclusivi, pur sottolineando cromaticamente le ombre che contraddistinguono la vita della protagonista. A segnare il destino del progetto televisivo sembra prevalentemente l’eventuale capacità di rendere i personaggi secondari tridimensionali dopo un avvio della narrazione in cui scivolano in più momenti negli stereotipi degli uomini di affari freddi, snob e incapaci di un reale coinvolgimento emotivo.
Limbo… Hasta que lo decida riesce comunque a convincere nonostante non proponga nulla di realmente originale o non visto sugli schermi, lasciando in sospeso il giudizio in attesa di scoprire in che modo si evolverà la storia della dark lady Sofia.
Caro Evan Hansen, dopo il successo ottenuto a Broadway, approda sul grande schermo con un film diretto da Stephen Chbosky (Noi siamo infinito, Wonder) che mette a frutto la sua sensibilità per adattare una storia non priva di insidie e che deve fare i conti con le difficoltà legate a un passaggio dal palco alle sale non sempre vincente. La presentazione al Toronto Film Festival (in Italia l’appuntamento è per la presentazione ad Alice Nella città in attesa della distribuzione ufficiale nei cinema il 2 dicembre) e il debutto negli Stati Uniti ha ottenuto un’accoglienza non del tutto positiva, ma a prescindere dal risultato finale non del tutto all’altezza del valore della produzione teatrale, la storia del giovane che soffre di ansia sociale, interpretato a teatro e sul set cinematografico da Ben Platt (The Politician) possiede tutti gli elementi necessari a rendere la visione utile, significativa e necessaria agli adolescenti, e non solo, per il modo in cui affronta in modo realistico, e a tratti persino cinico, le difficoltà quotidiane che le persone vivono nella società contemporanea.
Al centro della trama c’è il giovane Evan (Platt) che si ritrova, involontariamente, a essere coinvolto nella vita della famiglia di un suo compagno di classe, Connor (Colton Ryan), che si è tolto la vita. Il teenager, incapace di far soffrire ancora di più i genitori del teenager (Amy Adams e Danny Pino), finge di essere stato in segreto il miglior amico di Connor e, quella che inizialmente sembrava una bugia innocente, inizia ad avere delle conseguenze inaspettate, facendolo avvicinare a Zoe (Kaitlyn Dever), la ragazza dei suoi sogni, all’amico di famiglia Jared (Nik Dodani) che lo aiuta a creare una finta corrispondenza per mantenere la bugia, ad Alana (Amandla Stenberg) che coglie l’occasione per provare a fare la differenza tra i corridoi della scuola, e a se stesso, pur allontanandolo dalla madre Heidi (Julianne Moore), che da quando il padre di Evan li ha lasciati fa fatica a gestire la sua situazione di madre single che deve lavorare e prova in tutti i modi a sostenere un ragazzo sensibile e alle prese con l’ansia.
Il musical con le canzoni di Benji Pasek e Justin Paul è riuscito a trovare il modo di entrare in connessione con gli spettatori portando in scena una rappresentazione dura e realistica di cosa vuol dire provare a diventare adulti ed essere genitori in una società in cui la pressione sociale sta aumentando esponenzialmente grazie ai social media, in grado di promuovere iniziative positive e al tempo stesso, in molti casi, di minare profondamente l’autostima e la sicurezza di chi li utilizza, diventando una finestra in cui ci si propone al mondo spesso venendo totalmente ignorati o, ben peggio, criticati. Caro Evan Hansen pone al centro della propria storia proprio il bisogno di essere visti, ascoltati, notati e capiti che accomuna tutte le persone, a ogni età, dando spazio a come questo istinto umano possa avere un risvolto positivo creando empatia e legami e, al tempo stesso, rischiare di far sentire ancora più soli ed emarginati. Il racconto firmato dal duo Pasek e Paul con lo sceneggiatore Steven Levenson porta in scena un gruppo di personaggi che non diventano mai “eroi” e continuano a compiere errori, faticando a trovarare l’equilibrio in grado di tenerli a galla nonostante le tante difficoltà. Caro Evan Hansen ha il grande merito di rappresentare la fatica che, soprattutto i giovani, vivono nel tentativo di entrare a far parte di un gruppo e sentirsi accettati dai propri coetanei, spesso sacrificando nel complicato processo il compito ben più importante di trovare la propria identità e strada per un futuro sereno.
Il musical non propone mai modelli, ma persone a pezzi per vari motivi, dalla fine di un amore alle dipendenze, dall’ansia sociale alle liti in famiglia, e, soprattutto, ritraendo le insicurezze profonde che spesso si nascondono dietro un’apparente normalità e serenità.
Non ci sono adulti da prendere a esempio, non si dà spazio a teenager modelli di vita, non c’è spazio per insegnanti in grado di ispirare o leader da seguire, ma persone comuni e complicate che affrontano perdite, lutti, solitudini e istinti suicidi senza mai avere a portata di mano la risposta alle proprie domande, che sembra sempre sfuggente e sempre più lontana. Distanziandosi dai classici schemi dei racconti di formazione, le vicissitudini che affronta Evan sono un mix di sbagli animati da buone intenzioni e paure profonde, di cui non si comprende la portata fino a quando forse è troppo tardi. La rete complessa di relazioni e rimpianti che emergono progressivamente viene sostenuta da un’idea importante e che spesso viene trattata in modo stucchevole e stereotipata: nessuno merita di essere dimenticato o “scomparire”. Partendo da Waving through the window e passando poi per la hit You Will Be Found, fino a For Forever, i brani di Pasek e Paul esprimono in modo accurato e coinvolgente le emozioni provate da chi deve fare i conti con solitudine, incomprensione, depressione e ansie che hanno un impatto a volte devastante nella vita, soprattutto dei più giovani. L’aggiunta di The Anonymous Ones, canzone ideata in collaborazione con l’attrice Amandla Stenberg, enfatizza ancora di più il desiderio di ricordare agli spettatori che bisogna andare oltre l’apparenza per capire veramente una persona, non lasciandosi ingannare dall’immagine costruita per gli altri.
Caro Evan Hansen, pur avendo al centro il tema del suicidio, non è una storia sul lutto e sulle conseguenze della morte spesso all’insegna dell’ipocrisia e dei finti rimpianti, ma si concentra invece sul desiderio di vivere, amare e creare dei legami e uscire dalla convinzione di essere totalmente invisibili, condannati ad andare incontro agli ostacoli da soli rimanendo anonimi e senza che nessuno si accorga di quanto ci sta accadendo. Non si tratta di un ritratto di singoli individui, ma di diverse generazioni che faticano a trovare punti di contatto, tra genitori distanti che non capiscono del tutto i propri figli, teenager che cercano ognuno a proprio modo il giusto approccio a un periodo di cambiamenti, vuoti che si cerca di colmare e sensi di colpa che si spera di placare, personaggi come Zoe costretti a crescere troppo in fretta che nascondono il dolore e usano la propria resilienza per riuscire ad affrontare i momenti bui, pur essendo consapevole delle conseguenze dell’assenza di un affetto in famiglia e tra fratelli che alle volte si dà per scontato. E poi c’è Evan Hansen, con il suo disagio interiore, il desiderio di aiutare gli altri senza nemmeno essere in grado di aiutare se stesso, e un bisogno d’amore che in più occasioni offusca la necessità di imparare ad ammettere i propri limiti e accettarsi. Presenze tratteggiate dagli autori e dagli interpreti con delicatezza e comprensione, senza mai giudicare nemmeno quando le scelte compiute sono profondamente sbagliate. Non c’è, infatti, un approccio edulcorato agli eventi portati in scena e, pur non dando troppo spazio alle conseguenze, si sottolinea in più momenti come sia impossibile giustificare certi errori, anche se ne comprendono le motivazioni alla base. Il film, come il musical, non è perfetto e non cerca nemmeno di esserlo, ma ha la grande forza di ribadire a gran voce che c’è sempre spazio per la speranza e, anche nei momenti di maggiore sconforto, c’è chi è in grado di aiutare a superare i passaggi più bui della propria esistenza e trovare il proprio spazio nel mondo. Un messaggio, quello di Caro Evan Hansen di cui c’è sempre più bisogno e che va trasmesso, ascoltato e sostenuto per provare a dare vita a un cambiamento necessario nel modo in cui ci relazionamo tra esseri umani.
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