Release the Snyder Cut – Sean O’ Connell – Recensione e riflessioni

Il libro Release the Snyder Cut – The Crazy True Story Behind the Fight That Saved Zack Snyder’s Justice League scritto da Sean O’Connell rappresenta la lettura perfetta nell’attesa del 18 marzo, giorno in cui verrà finalmente distribuita la versione originale delle avventure del team di eroi della DC ideata dal regista.
Il volume è infatti particolarmente ricco di dettagli ed è una lettura estremamente scorrevole e coinvolgente, offrendo una prospettiva maggiormente focalizzata sul lato umano della vicenda, dando inoltre un enorme spazio alle testimonianze dei fan coinvolti nel movimento che ha contribuito a far arrivare il film su HBO Max.

Nel 2017, quando ho dovuto recensire la versione del lungometraggio con la firma di Joss Whedon, avendo a disposizione poche righe, ho trascorso più di un’ora nel tentativo di sintetizzare la mia opinione negativa sul risultato finale, ritrovandomi a criticare l’imbarazzante aspetto di Superman modificato in digitale, la sensazione che fossero stati fusi insieme due approcci alla storia quasi in totale opposizione, il dispiacere nel constatare che le interpretazioni del cast fossero state messe in secondo piano da un racconto confuso e approssimativo, e concludendo ammettendo l’evidente dispiacere rappresentato dalla mancata possibilità di vedere la storia ideata in origine da Zack Snyder. Pur non potendomi considerare una vera fan del regista, ho sempre apprezzato il talento di Snyder e la sua capacità di scegliere un approccio narrativo originale e inaspettato, soprattutto in occasione di progetti legati a personaggi iconici come quelli tratti dalle pagine dei fumetti della DC. Non ho mai avuto, purtroppo, l’occasione di intervistarlo o incontrarlo durante il mio percorso professionale, ma continuo a trovare ammirevole la sua disponibilità nei confronti dei fan e la sua passione nel parlare del lavoro compiuto davanti e dietro la telecamera. Per questi motivi, nonostante non avessi mai seguito con costanza i progressi compiuti dall”esercito’ di fan impegnati nel tentativo di far distribuire la Snyder Cut, sono stata estremamente felice quando è stato annunciato l’accordo con HBO Max, in particolare pensando alle ripercussioni emotive subite da un artista causate dalla consapevolezza che il lavoro compiuto nel corso di molti anni fosse stato stravolto e messo da parte.
Il libro, pubblicato da Applause, permette di scoprire molti dettagli di quanto accaduto dal 2017, pur causando qualche perplessità e non facendo, a mio parere, del tutto chiarezza sulle decisioni dello studio e nell’affrontare il lato negativo del movimento, e suscitando un po’ di fastidio nel proporre una visione unilaterale dello stile di Whedon.

L’opera di O’Connell ha però molti aspetti positivi e dovrebbe essere letta dai sostenitori della DC e dell’impegno di chi ha lottato per ottenere la possibilità di vedere la versione di Snyder.
Il libro offre un approfondimento molto interessante sulla nascita del movimento raccogliendo le storie dei ‘fondatori’, spiegandone le motivazioni e la decisione di sostenere in parallelo l’American Foundation for Suicide Prevention, elemento fin troppo dimenticato nel riportare le notizie che riguardavano le richieste dei fan negli ultimi anni. Release the Snyder Cut trasporta in modo efficace e coinvolgente nel lato più emotivo dell’esperienza cinematografica, condividendo esperienze personali che hanno portato a formare un legame profondo con i film firmati da Snyder e con le persone conosciute durante i tentativi di convincere i vertici di Warner Bros a distribuire il montaggio originale. Altrettanto interessante, specialmente per chi non è un grande esperto di cinema o non conosce la filmografia dell’artista, lo spazio dedicato alla spiegazione della mitologia e delle tematiche alla base dei progetti della DC realizzati da Zack Snyder, sottolineando la contrapposizione con il Marvel Cinematic Universe.
Dal punto di vista della produzione, personalmente, avrei sperato in qualche pagina in più riguardante il lavoro compiuto sul casting, davvero encomiabile, e sulla produzione, e mi sarei aspettata un maggior spazio alla prospettiva di Deborah Snyder sull’intera questione, essendo coinvolta personalmente e dal punto di vista professionale; dettagli che non penalizzano però in nessun modo l’ottimo risultato finale della proposta letteraria.

Release the Snyder Cut

Dispiace, invece, non trovare una riflessione sui problemi che sicuramente lo studio ha affrontato nel momento del passaggio delle consegne a Joss Whedon e che hanno avuto, quasi sicuramente, un peso nel decidere di non far slittare la data di uscita. Non considerare le ramificazioni commerciali ed economiche di un progetto della portata di Justice League rende probabilmente complicato comprendere realmente le cause di quanto proposto sul grande schermo. Penso sia impossibile negare che franchise come quelli tratti dai fumetti o dalle opere di J.K. Rowling siano essenziali per poter avere i fondi e la possibilità di dare il via libera a opere di minor appeal commerciale e non legate allo sfruttamento dei marchi dal punto di vista del merchandise, delle licenze, dell’uso nei parchi tematici. Era davvero possibile posticipare di più mesi l’uscita nelle sale? Penso che la risposta a questa domanda sia più complessa rispetto a quanto proposto nel libro e coinvolga riflessioni più approfondite riguardante i periodi scelti per la distribuzione in modo da poter sfruttare nel migliore dei modi, pensando in particolare alle entrate grazie al merchandise e alle licenze commerciali concesse, le imminenti festività, scontrarsi con titoli che si rivolgevano a un target diverso, la mancanza di rivali diretti e un lavoro compiuto dal punto di vista della pianificazione del marchio iniziato molto prima dell’annuncio dell’addio di Snyder al progetto. Può essere stata una scelta legata a bonus economici da parte dei vertici dello studio? Forse sì, ma sarebbe stato interessante un’analisi breve, ma chiara, dei tanti elementi legati alla produzione di un cinecomic di questa portata.
Il capitolo dedicato alle differenze tra Joss Whedon e Zack Snyder, inoltre, appare fin troppo sbilanciato a causa della scelta di dare spazio prevalentemente alle opinioni dei fan. Le differenze stilistiche e dal punto di vista narrativo sono innegabili e sarebbe strano il contrario essendo due persone dalle esperienze di vita e professionali differenti, due individui con una propria mente e una visione del mondo personale, come accade con ogni essere umano. A suscitare un po’ di perplessità è invece l’idea che tra i due non ci sia alcun punto in comune, sostenendo che Whedon non usi riferimenti religiosi e filosofici, “non possieda quel tipo di sguardo ricco di strati e sfumature”, o proponga una visione dei supereroi fin troppo ironica e non li consideri seriamente, proponga delle eroine che non sono sempre forti e potenti quando non indossano il loro costume. Tra le pagine si scopre così che il creatore di Buffy non sarebbe in grado di celebrare l’individualismo e le meraviglie della vita, che sfrutterebbe eccessivamente “i tropi hollywoodiani”, e che il suo approccio al genere sarebbe fin troppo “facilmente digestibile e apprezzabile. C’è la tendenza a dimenticarlo mentre stai uscendo dal cinema”. Un’analisi, a mio parere, fin troppo superficiale e che non tiene conto di molti dettagli che potrebbero tranquillamente portare a pensare che la visione dei due registi non sia in totale opposizione. Il primo problema di questa ricostruzione, nonostante si avanzi l’ipotesi che il regista si sia a sua volta scontrato con delle richieste impossibili da soddisfare, è il fatto che Joss Whedon non abbia mai offerto i dettagli della propria esperienza sul set, non abbia rivelato eventuali imposizioni e direttive dello studio e non abbia commentato apertamente le critiche, lasciando quindi in sospeso molti dubbi riguardante quanto è realmente accaduto prima, durante e dopo le ormai famigerate riprese aggiuntive e quanti dei problemi del risultato finale siano attribuiti esclusivamente al lavoro compiuto dal regista. Il secondo punto da considerare è Avengers: Age of Ultron: è davvero possibile dichiarare che Whedon non utilizzi elementi religiosi e filosofici dopo aver proposto un villain e il personaggio di Visione che affrontano proprio tematiche riguardanti la natura degli esseri umani, il libero arbitrio, la capacità di provare compassione ed empatia, ciò che rende salvabile una specie vivente nonostante gli innegabili difetti della sua esistenza sulla Terra? Certo, è un approccio narrativo diverso rispetto a quello di Snyder, sarebbe impossibile che non lo fosse, ma sostenere la mancanza di attenzione per queste tematiche non sembra del tutto corretto. C’è poi un terzo punto: dichiarare che il regista non sia in grado di proporre personaggi femminili ricchi di sfumature e forti a prescindere da poteri e costumi è piuttosto discutibile se si considerano i progetti portati sugli schermi prima degli Avengers. Si può sicuramente ribattere che una serie tv non è frutto del lavoro di un’unica persona, e infatti è il risultato dell’impegno di innumerevoli artisti, tuttavia basta prendere in considerazione gli episodi scritti e diretti da Joss Whedon per capire che il giudizio dato tra le pagine è piuttosto superficiale. Dallo scontro tra Buffy e Angel nel finale della seconda stagione, passando dal memorabile episodio in cui muore la madre di Buffy e arrivando alla puntata musical, le scelte registiche e narrative del filmmaker propongono un ritratto profondo dell’animo umano, dell’impatto sulla psiche causato da eventi traumatici e del significato della vita. Dispiace che venga totalmente ignorato come Whedon abbia contribuito a portare sugli schermi televisivi un’intera stagione, la sesta, con una protagonista alle prese con la depressione, e persino vicina al suicidio, in un periodo storico in cui l’attenzione per la salute mentale e le problematiche affrontate dagli adolescenti era quasi del tutto assente dagli schermi. Risulta davvero difficile dichiarare senza ombra di dubbio che un regista non sia in grado di affrontare tematiche importanti in modo serio e riflessivo e, ironicamente, le dichiarazioni dei fan di Snyder che sostengono che la visione dei suoi film li abbia aiutati ad affrontare momenti difficili della propria vita ricordano molto da vicino quelle compiute per anni dai sostenitori di Buffy.
Whedon ha proposto senza dubbio una gran dose di ironia e leggerezza, ma ha anche firmato momenti come questo passaggio di Buffy in cui si sfrutta persino in modo brillante il concetto di luce e ombra, oltre a un dialogo memorabile che affronta in modo chiaro e rispettoso la situazione mentale della Cacciatrice, e imporre l’idea di due artisti in totale opposizione sembra quasi sminuire il lavoro compiuto dai due filmmaker in carriera, proponendo una semplificazione poco costruttiva. Ciò che ha portato alla distribuzione di un film insoddisfacente, seppur per molti versi in grado di intrattenere ed essere apprezzato, penso sia legato a una struttura, idee e modelli di business che non sono esclusivamente riconducibili con assoluta certezza alle decisione dei singoli.

L’ultimo punto della lotta portata avanti dai fan per anni che, personalmente, penso avrebbe avuto bisogno di un’analisi meno di parte, è quello riguardante le accuse rivolte al movimento, da molti considerato vicino al bullismo e “tossico”. Sean O’Connell compie un ottimo lavoro nell’evidenziare il lato migliore della situazione e a lodare, come è giusto che sia, il contributo che hanno dato nel permettere a un’artista di riappropriarsi del proprio lavoro e mostrarlo al mondo, oltre a sostenere una causa importante come quella portata avanti dall’American Foundation for Suicide Prevention. Negare che, soprattutto su Twitter, ci sia stato spazio per attacchi fin troppo duri e ingiustificati a chiunque negasse l’esistenza della versione Snyder Cut, compresi alcuni attori che hanno lavorato in altri progetti della DC, e che le pagine social dello studio e dei suoi dirigenti non fossero diventati un campo di battaglia senza esclusione di colpi è però difficile. Essere motivati da un intento lodevole e dalla propria passione non esclude, purtroppo, che in molti casi si superino i confini del rispetto nel confronto del prossimo o non si dia il giusto peso alle conseguenze di una campagna così capillare e insistente. Mi risulta davvero complicato non pensare a come deve essere stato difficile e pesante dal punto di vista mentale lavorare come social media manager negli ultimi anni tra le fila della Warner o la pressione subita dai dirigenti dello studio. Si potrebbe dire che il fine giustifica i mezzi, tuttavia si dovrebbe riflettere seriamente sulla questione e sul “potere” che si ottiene creando un gruppo numeroso pronto a tutto pur di sostenere un’iniziativa o un’idea, considerando in modo obiettivo anche le accuse rivolte a chi si è opposto a lungo a una possibile distribuzione del film causata dalla pressione subita da parte dei fan. In un’epoca pre-social media i fan erano già riusciti a salvare una serie dalla cancellazione inviando ai diigenti della CBS tonnellate di arachidi e recentemente il sostegno degli spettatori ha contribuito più volte a dare una seconda chance a vari progetti, la portata di Release the Snyder Cut apre però la porta a potenziali ripercussioni sui processi decisionali e sul modo in cui possano essere influenzati dal pubblico. Zack Snyder, dal suo punto di vista, ha assolutamente ragione nel dichiarare che non considera “tossico” il movimento ed è bellissimo leggere le testimonianze di chi ha stretto amicizie e ha vissuto cambiamenti positivi nella propria vita grazie al proprio impegno a sostegno della causa. Esiste però un altro punto di vista che andrebbe considerato, rispettato e, seppur non condiviso, capito. Le potenziali conseguenze negative del “cedere” alle richieste dei fan esistono e, seppur per molti aspetti non si tratti di questo caso, non andrebbero respinte, ignorate o negate in modo categorico, attribuendo la colpa di comportamenti non del tutto positivi solo alle azioni di singoli individui che si sono allontanati dalle idee alla base dell’iniziativa.

La gestione, a mio parere, non del tutto obiettiva di questi punti e non pregiudica però in nessun modo l’utilità di Release the Snyder Cut e non mette in ombra la bravura dell’autore che ha saputo ripercorrere una pagina importante della storia del cinema contemporaneo con semplicità e dando vita a una lettura stimolante e piacevole. Il libro sarà un’aggiunta imperdibile per i fan del regista e dei fumetti della DC e una proposta interessante per gli studenti di cinema e dell’evoluzione dei mezzi di comunicazione.

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Finding Yingying, recensione

Il documentario Finding Yingying immerge gli spettatori nella tragedia di una famiglia raccontando il tragico destino di una studentessa brillante, la cui vita è stata spezzata in modo drammatico e inspiegabile.
La regista Jiayan ‘Jenny’ Shi, al suo debutto dietro la macchina da presa, firma un’opera semplice ma di grande impatto emotivo scegliendo di raccontare la storia di un terribile crimine dal punto di vista umano, delineando il ritratto della giovane vittima e della sua famiglia piuttosto che concentrarsi sulla ricostruzione delle indagini compiute dalla polizia.

Il film racconta quanto accaduto a Yingying Zhan, una studentessa di 26 anni cinese che era arrivata negli Stati Uniti per studiare e sognava di proseguire la sua carriera e potersi sposare con il fidanzato, sperando inoltre di diventare madre. Dopo aver avvisato i compagni di studio che avrebbe fatto tardi dovendo andare a vedere un alloggio che aveva intenzione di affittare per diminuire le spese, la ragazza è però scomparsa. La famiglia di Yingying è quindi volata negli Stati Uniti nella speranza di scoprire cosa le è accaduto e riabbracciarla, ma la verità è più terribile di quanto si possa immaginare.

La regista ha seguito da vicino la famiglia Zhang nei loro tentativi di scoprire la verità e ottenere giustizia, avendo accesso anche ai diari della studentessa e alle testimonianze dei suoi amici per realizzare il documentario.
Finding Yingying prende progressivamente la forma di un racconto sulla perdita nelle sue varie forme, da quella di una persona amata alla fine dei sogni di una vita migliore, arrivando progressivamente all’impossibilità di mantenere la speranza in una famiglia che affronta in modo diverso le tristi conseguenze della scomparsa della studentessa, le cui foto sorridenti rendono ancora più straziante i dettagli di quanto le è accaduto.

Jiayan “Jenny” Shi si immedesima forse fin troppo nel racconto che propone sullo schermo, considerando i punti di contatto tra la sua vita e quella della vittima di un crimine così violento e inspiegabile, perdendo l’occasione di indagare in modo approfondito su quanto abbia pesato sul caso la natura da “outsider” di Yingying, se fosse possibile prevenire un crimine così aberrante e se non ci siano stati ritardi da parte della polizia.
Finding Yingying, con una struttura lineare ed efficace, riesce a emozionare con la sua storia di una famiglia come tante, alle prese con sacrifici e problemi, posta di fronte a un incubo senza fine, riuscendo inoltre a rendere omaggio a una donna brillante che meita di essere ricordata per quello che avrebbe potuto ottenere nella vita.

For They Know Not What They Do – Recensione

For They Know Not What They Do è il nuovo documentario diretto da Daniel G. Karslake (Every Three Seconds, For the Bible Tells Me So) che racconta in modo sensibile ed emozionante la storia di quattro famiglie seguendo il modo in cui hanno affrontato tematiche legate alla sessualità e all’identità personale, facendo inoltre i conti con le proprie convinzioni animate dalla fede.
I quattro racconti, che si intrecciano e sono intervallati anche da interventi di alcuni esperti e religiosi, permettono di compiere un’importante riflessione sugli elementi che influenzano le reazioni nei confronti delle persone LGBTQ e su come la società sia ancora contraddistinta da intolleranza e odio nei confronti del prossimo, arrivando al punto da privare i cittadini dei propri diritti civili.

Il montaggio firmato da Nancy Kennedy permette di seguire in modo coinvolgente e scorrevole le varie fasi della vita di quattro giovani dopo il loro coming out in famiglia. Ryan, il figlio di Linda e Bob Robertson, subisce la pressione dei genitori e la “condanna” della propria chiesa, venendo quindi sottoposto a una terapia di conversione, pratica molto discussa che lo fa scivolare nella tossicodipendenza e nei problemi psicologici.
Vico Baez-Fedos, un giovane di origini portoricane, inizialmente si trova a fare i conti con il rifiuto della nonna, trovando però la comprensione e l’affetto dei suoi genitori Victor e Annette. Il ragazzo sarà poi coinvolto nella drammatica sparatoria avvenuta al nightclub Pulse.
Elliot ha invece superato una fase all’insegna dell’autolesionismo e della sofferenza prima di poter trovare la propria identità grazie al sostegno e all’amore dei genitori Coleen e Harold Porcher.
David e Sally McBride, infine, hanno trovato forza proprio nella fede quando il loro figlio ha rivelato di essere una donna transgender. Sarah McBride è da anni attiva nel mondo della politica ed è stata recentemente eletta senatrice, continuando a lottare per i diritti della comunità LGBTQ e superando molti ostacoli nella propria vita, tra cui un lutto straziante.

Le differenti reazioni delle quattro coppie offrono un ottimo punto di partenza per analizzare il modo in cui la religione abbia ancora un’influenza, non per forza negativa, sulla relazione tra genitori e figli e sulla dimensione legata alla sessualità della propria vita.
Se i McBride hanno permesso a Sarah di avere l’amore e la sicurezza necessaria a vivere pienamente la propria vita, i Robertson con il loro atteggiamento completamente opposto si sono resi conto solo in un secondo momento delle tragiche conseguenze delle proprie convinzioni e azioni. Senza nulla togliere alle altre due esperienze, sono proprio quelle di Sarah e Ryan a lasciare il segno più profondo nella mente e nel cuore degli spettatori, da una parte sollevati per la testimonianza di chi è riuscito a superare gli ostacoli rappresentati dalla chiusura mentale e dall’ignoranza, e dall’altra tristemente testimoni di una progressiva presa di coscienza arrivata troppo tardi e che ha portato alla ricerca di un perdono e di una redenzione, più da parte di se stessi che degli altri, difficile da ottenere.

Le storie proposte offrono uno sguardo sulla società americana ricco di sfumature che a tratti indigna e in altri passaggi commuove, portando alla convinzione che ci sia ancora molta strada da compiere per raggiungere una vera eguaglianza e un mondo che permetta a tutti gli esseri umani di vivere pienamente la propria esistenza.

Seguire il percorso compiuto dai giovani al centro della trama è istruttivo e coinvolgente, grazie al lavoro compiuto da Karslake nel dare voce ai protagonisti con grande sensibilità e calibrando bene le informazioni offerte dagli esperti che permettono di inserire le varie esperienze in un contesto utile a capire le motivazioni alle base delle scelte compiute dagli adulti.

For They Know Not What They Do è una visione necessaria per comprendere meglio le difficoltà affrontate da milioni di giovani in tutto il mondo a causa di ideologie e convinzioni che vanno contro l’amore e il rispetto su cui dovrebbero invece basarsi.

Fire Cannot Kill a Dragon – James Hibberd, la recensione

La serie Game of Thrones – Il Trono di Spade ha, senza alcun dubbio, lasciato il segno nel mondo televisivo e dell’intrattenimento e James Hibberd con Fire Cannot Kill a Dragon regala un interessante e imperdibile racconto del dietro le quinte dello show.
Il volume scritto dal giornalista di Entertainment Weekly ripercorre tutte le fasi della realizzazione dell’adattamento televisivo della saga creata da George R.R. Martin dalla sua ideazione al tanto discusso epilogo, avvalendosi di interviste, ricordi personali e anneddoti condivisi dagli showrunner, dai produttori, dai protagonisti e dall’autore dei romanzi.

Uno dei dettagli che spesso i critici e i fan minimizzano, o addirittura dimenticano, è la portata dell’impresa compiuta da David Benioff e Dan Weiss che hanno preso un’opera dalle caratteristiche “impossibili” da tradurre per lo schermo gettando le basi, all’epoca in modo inconsapevole, per un successo mondiale in grado di dare vita anche a spinoff, progetti editoriali, videogame e avere un impatto incredibile sulla cultura e sulla società, ispirando persino i genitori nella scelta dei nomi per i propri figli.
Hibberd parte proprio dall’idea, sulla carta quasi folle, di portare la storia di Martin sugli schermi televisivi, dai primi incontri con Martin e dagli incontri con i vertici della HBO, affrontando i dubbi e le perplessità legate al potenziale interessamento da parte degli spettatori per un progetto fantasy in costume. I risultati inferiori alle aspettative ottenute da Roma e il paragone insostenibile con la trilogia del Signore degli Anelli firmata da Peter Jackson avrebbero potuto rendere irrealizzabile il sogno dei due sceneggiatori e produttori emergenti, riusciti però a ottenere la fiducia necessaria a produrre l’episodio pilota.

Le persone che hanno amato seguire la lotta per il potere a Westeros in Fire Cannot Kill A Dragon possono scoprire nuovi dettagli del pilot realizzato e mai andato in onda e i motivi per cui è stato necessario effettuare dei cambiamenti tra gli interpreti e ritornare sul set. Il racconto di come è stato effettuato il casting è inoltre davvero piacevole da ripercorrere attraverso i ricordi delle star che, prima di ottenere ruoli ormai iconici, erano in molti casi ai primissimi passi della propria carriera come accaduto a Kit Harington, Sophie Turner o Maisie Williams, senza dimenticare Emilia Clarke che ha ottenuto la parte di Daenerys sostituendo Tamzin Merchant, interpreta della giovane Targaryen nella prima versione del pilot.

L’amore dell’autore del libro per Game of Thrones traspare nella sua narrazione, permettendo in un certo senso di immedesimarsi con il suo punto di vista nel ripercorrere i momenti cult dello show come la morte di Ned Stark, la prima apparizione dei draghi, le traumatiche Nozze Rosse e le spettacolari scene di battaglia, le tante morti, l’introduzione (poco riuscita) di Dorne, la traumatica camminata di Cersei in mezzo alla folla urlante per “espiare” i propri peccati, la controversa prima notte di nozze tra Sansa e Ramsay, fino agli eventi dell’ultima stagione.
Hibberd offre degli approfondimenti su tutte le decisioni prese dagli autori e sul monumentale lavoro compiuto dal team della produzione, ribadendo il valore di un progetto che, per ambizione, ha difficilmente dei paragoni nel panorama televisivo degli ultimi anni e ha aperto le porte a una nuova ondata di titoli fantasy sul piccolo e grande schermo.
Il libro permette anche di capire quanto il talento delle persone impegnate dietro la telecamera, dal team che ha coordinato tutto il lavoro dal punto di vista produttivo ai r visionari come Miguel Sapochnik, abbia contribuito in maniera significativa a costruire alcuni dei momenti più indimenticabili di Game of Thrones, celebrando i sacrifici compiuti durante la creazioni di puntate che sono ormai entrate nella storia della televisione, dalla Battaglia dei Bastardi alla Lunga Notte.

Lo stile di scrittura scorrevole e i contenuti accattivanti e interessanti rendono A Fire Cannot Kill a Dragon una lettura stimolante e che colma un po’ la mancanza dello show, in attesa del già annunciato Fire and Blood e dei potenziali show attualmente in fase di sviluppo per HBO, lasciando però la voglia di rivedere tutte le stagioni di Game of Thrones.

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