Be Water, recensione

Be Water, il documentario diretto da Bao Nguyen (We Gon’ Be Alright) prodotto per ESPN, racconta la vita di Bruce Lee concentrandosi prevalentemente sulle difficoltà affrontate a causa del razzismo e dell’intolleranza nei confronti delle persone asiatiche esistente negli Stati Uniti, in particolare nel mondo di Hollywood.
Il progetto sfrutta le testimonianze di Linda Lee Cadwell, la moglie della star, di Shannon Lee e di chi ha avuto modo di lavorare e conoscere l’attore, delineandone un ritratto fin troppo lusinghiero e in cui i lati negativi della storia sono stati accuratamente smussati o del tutto eliminati. Se la parte dedicata all’infanzia e ai primi passi nel mondo dello spettacolo di Bruce Lee appaiono interessanti e regalano delle curiosità interessanti poco conosciute, la rappresentazione dei tentativi di sfondare a Hollywood e di quanto accaduto nel giorno della morte risultano invece poco obiettivi e del tutto di parte, tralasciando o modificando dettagli importanti che avrebbero forse fatto calare delel ombre non desiderate sull’immagine fin troppo idilliaca e perfetta proposta della vita di Bruce Lee. Nessun accenno, quindi, all’utilizzo di droghe leggere o amanti, poche parole tra le righe sul carattere complicato dell’esperto in arti marziali e un numero fin troppo esagerato di lodi e apprezzamenti sostengono la narrazione compiuta grazie a materiali d’archivio e alle interviste. Nonostante sia innegabile l’importanza avuta da Bruce Lee e il modo in cui sia diventato un’icona, Be Water propone anche delle informazioni non accurate come quelle riguardanti la serie Kung Fu o quanto accaduto nella giornata in cui l’attore ha perso la vita a Hong Kong, elemento purtroppo non a favore del documentario.
Il coinvolgimento della famiglia, tuttavia, permette di accedere a foto e video, anche privati, che aiutano a far emergere con efficacia la filosofia che animava la determinazione e la voglia di successo di Bruce, senza dimenticare il suo desiderio di ottenere una rappresentazione non stereotipata delle persone asiatiche e un salario equo rispetto ai suoi colleghi.


Be Water, purtroppo, passa rapidamente da un capitolo all’altro della vita della star senza addentrarsi realmente nelle tematiche affrontate, arrivando al tragico epilogo lasciando la sensazione di essere fronte a una versione fin troppo personale degli eventi che non ha mai trovato la giusta distanza necessaria per evitare di apparire come un prodotto girato per soddisfare chi è già fan o per creare un’apologia poco incisiva.

Lance – Recensione – Aspen Film Festival 2020

Marina Zenovich, dopo l’interessante Nella mente di Robin Williams, torna alla regia con il documentario in due parti Lance in cui si racconta la vita di Lance Armstrong, una delle figure più controverse e discusse del mondo dello sport.
Il progetto, presentato recentemente all’Aspen Film Festival, è una visione affascinan te e in grado di spingere a più di una riflessione sulla fama, sui compromessi e sulla velocità con cui la società è disposta a creare e distruggere gli eroi contemporanei-

Il documentario, che può contare sulla collaborazione dell’ex ciclista, segue il percorso compiuto da Armstrong raccontandone anche l’infanzia, non priva di ombre a causa di una situazione famigliare non delle più semplici, e mostrandone i primi successi sportivi. La personalità di Lance viene così motivata e delineata dalla sua dimensione privata, rendendo più comprensibili anche i lati più duri e taglienti del suo carattere, da sempre indicato come uno dei suoi punti di forza e al tempo stesso tra i suoi più grandi difetti. Lance si addentra successivamente nella sua lotta contro il cancro e la fondazione di Livestrong, evidenziando uno degli elementi che alle volte vengono dimenticati nel raccontarne le gesta e ricordando il peso avuto nel raccogliere fondi, sostenere la ricerca e contribuire a una maggiore consapevolezza delle conseguenze fisiche ed emotive della scoperta di avere un tumore. La sua dedizione nei confronti della fondazione che ha sostenuto e la sua disponibilità nel relazionarsi con i fan, di tutte le età, che stavano combattendo per sopravvivere aumentano l’empatia nei confronti di una persona che, nonostante i tanti errori e l’imperdonabile scelta di mentire per anni sull’uso di doping, rimane un essere umano dalle innumerevoli sfumature, diventando così più complicato condannarlo totalmente per quanto compiuto in campo sportivo.
Lance Armstrong assume, nel ritratto compiuto da Zenovich, delle caratteristiche che lo avrebbero reso il protagonista perfetto di una tragedia shakespeariana e persino i suoi amori e il legame con i figli vengono ritratti senza alcun filtro o condiscendenza.

L’ex campione non ha alcun freno nel ritrarre il mondo dello sport come una realtà in cui doparsi era l’unico modo per essere alla pari degli avversari, essendo una pratica diffusa in modo capillare, o nel ricordare come esista una grande ipocrisia nell’innalzare i vincitori al ruolo di eroi nazionali e poi distruggerli senza appello, ignorando totalmente le potenziali conseguenze della situazione. Il documentario dà un breve spazio anche a quanto accaduto a Marco Pantani o Jan Ullrich, e racconta con una certa chiarezza e attenzione quanto accaduto dopo la conferma dell’uso di sostanze illecite da parte di Armstrong.
Grazie alle testimonianze di ex compagni di squadra, conoscenti, membri dei team di cui aveva fatto parte, esperti e giornalisti, il documentario in due parti regala uno dei ritratti più esaustivi dello sportivo che sono stati realizzati negli ultimi anni e obbliga a riflettere sulla realtà del ciclismo professionista, oltre ad alimentare l’interesse nei confronti di Lance Armstrong.
L’ex ciclista, che non ha alcun problema nell’ammettere comportamenti sgradevoli e scorretti, rimane tuttora una voce da ascoltare e tenere in considerazione e sarà interessante scoprirne i futuri progetti che, come rivelato proprio durante l’Aspen Film Festival, riguardano da vicino anche il mondo del cinema.

Summertime, recensione – GuadaLAjara Film Festival 2020

Summertime, dopo la presentazione al Sundance, è stato selezionato dal GuadaLAjara Film Festival 2020 permettendo agli spettatori di vedere un’opera davvero interessante per la sua capacità di mostrare un lato di Los Angeles meno patinato e più vicino alla vita quotidiana, pur addentrandosi in un’atmosfera artistica.
Il film di Carlos López Estrada unisce infatti poesia, musica e recitazione per delineare un ritratto originale e stimolante di un gruppo di ventenni alle prese con amori, tradimenti, sogni di gloria, ricerca di identità, razzismo e una società complessa e spesso spietata.

Un team di autori davvero numeroso, circa 30 persone coinvolte, hanno permesso di dare il giusto peso alla diversità che contraddistigue la città della California e valorizzare alcuni talenti emergenti con monologhi, performance canore e momenti collettivi che emozionano.
La giornata portata sugli schermi è composta da tanti tasselli diversi che spaziano da “scontri” al ristorante a confronti in autobus con un giovane omofobo, dalla resa di conti tra potenziali amanti a tentativi di capire l’utilità del proprio percorso di studi o professionale.
I protagonisti – interpretati da Tyris Winter, Bene’t Benton, Mila Cuda, Gordon Ip, Marquehsa Babers, Bryce Bank e Austin Antoine – riescono a sfruttare bene l’espediente delle performance artistiche per dare voce all’interiorità dei personaggi e l’approccio quasi teatrale viene gestito con bravura dal regista che segue l’emotività e la passione del suo cast con inquadrature dinamiche e ben calibrate sui contenuti proposti.

Summertime, nonostante l’approccio atipico dal punto di vista cinematografico, regala uno sguardo sulla società contemporanea e sulla vita di giovani pieni di passioni, speranze e incertezze, riassumendo in modo efficace e tagliente le contraddizioni di un periodo della vita tra i più stimolanti e intensi, sullo sfondo di una città ricca di fascino, soprattutto se illuminata di notte dalle luci di spettacolari fuochi d’artificio.

Charlie Mackesy – Il bambino, la talpa, la volpe e il cavallo

Pochi libri hanno il potere di conquistare gli occhi, il cuore e la mente dei lettori di tutte le età: Il bambino, la talpa, la volpe e il cavallo di Charlie Mackesy è una di quelle opere.

Al centro del semplice, ma emozionante, racconto ci sono un bambino, una talpa che ama mangiare le torte ed è piena di vita, una volpe un po’ sospettosa e un cavallo davvero saggio e gentile. I quattro amici affrontano il mondo, si pongono molte domande e si aiutano a vicenda per capire cosa è veramente importante nella vita e quanto l’amicizia sia essenziale per superare ogni ostacolo.

L’opera di Charlie Mackesy è davvero senza tempo grazie ai suoi messaggi universali espressi con onestà, gentilezza e purezza d’animo. La bellezza dei disegni dell’artista è in grado di spaziare tra i momenti onirici a quelli più personali, dando dinamicità al tratto e personalità alle sue creazioni.

Diventa quasi impossibile non desiderare le stampe di Mackesy che ci ricordano immediatamente le lezioni di vita che andrebbero apprese a ogni età e che, in questa annata così difficile, diventano davvero essenziali. Il bambino, la talpa, la volpe e il cavallo sa confortare, emozionare, commuovere e regala un calore che solo i grandi artisti possono creare con disegni e parole.

Il libro, pubblicato in Italiano da Salani, non dovrebbe mancare in ogni casa per poter ritornare nel mondo creato tra le pagine non appena se ne sente il bisogno, lasciandosi trasportare dalla poesia e dalla magia della semplicità.

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Dash & Lily, i romanzi di Rachel Cohn e David Levithan

La serie Dash & Lily ha conquistato gli spettatori di Netflix con un mix ben calibrato di romanticismo, atmosfera natalizia e problemi adolescenziali che non risultano mai stucchevoli o banali, e per chi volesse scoprire cosa accadrà alla coppia al centro degli eventi si possono leggere i tre romanzi scritti da Rachel Cohn e David Levithan, nonostante molti elementi siano diversi dopo il passaggio dalle pagine al piccolo schermo.

Al centro della storia ci sono Lily, una teenager un po’ goffa e outsider dalla famiglia “ingombrante” a cui è molto legata, e Dash, un ragazzo i cui genitori sono divorziati e che non ama affatto il Natale. Lily attende invece dicembre con grande gioia fino a quando i suoi genitori decidono di partire per le isole Fiji durante le festività, situazione che interrompe le tradizioni della figlia causandole un po’ di spaesamento e tristezza. Il fratello della giovane, Langston, decide così di ideare per lei un “passatempo”: una serie di sfide lanciate tramite un quaderno rosso nascosto nell’iconica libreria di New York Strand, scoprendo così se qualcuno avrà il coraggio e la capacità di rispondere e interagire a distanza con lei. A farlo è Dash e i due teenager iniziano a conoscersi tramite le confessioni e i racconti scritti tra le pagine di quel taccuino rosso.

I due autori si sono occupati dei diversi punti di vista della storia in tutti e tre i romanzi che sono ambientati a Natale, ovviamente a distanza di un anno uno dall’altro. I lettori possono così entrare nella mente di Dash e Lily e seguirne la crescita tramite gli eventi che li separano dal 25 dicembre. L’approccio alla narrazione e la struttura risulta scorrevole e, nonostante 11 mesi vengano riassunti a grandi linee e tramite i dettagli legati ai contrattempi e alle incomprensioni che sostengono la storia, si riescono a capire emozioni e problemi dei due teenager. Dopo Book of Dares, The Twelve Days of Dash and Lily dà maggiore spazio ai problemi in famiglia di entrambi i personaggi principali e Mind the gap ne segna quindi il passaggio dall’adolescenza all’età adulta.
Proprio il terzo capitolo della storia ideata da Cohn e Levithan è forse quello più interessante, non solo per il cambio di ambientazione da New York a Londra, ma perché archiva dubbi sentimentali e incertezze tipiche dei teen drama per dare maggior spazio alla ricerca della propria identità.

La storia d’amore, seppur rivolta a un target molto giovane evitando così situazioni troppo “adulte” o drammatiche, è ben gestita per mostrare come l’incontro di due personalità molto diverse possa comunque dare vita a una relazione in grado di far crescere e maturare, sostenendosi a vicenda e aiutando a superare insicurezze e traumi personali.
Tra divorzi, malattie in famiglia, rancori e incomprensioni, Dash e Lily affrontano situazioni in cui è facile immedesimarsi e immediatamente comprensibili, rendendo così la lettura piacevole e soddisfacente per chi non è alla ricerca di un’opera particolarmente impegnativa.
Al termine della trilogia, inoltre, rimane la voglia di scoprire qualcosa in più di personaggi come Boomer, Mrs. Basil E. e la nonna di Dash, new entry nel racconto davvero irresistibile.
Sarà poi interessante scoprire come verrà riempito nella seconda stagione dello show il vuoto causato dall’assenza di Boris, un amico a quattro zampe che nei romanzi diventa un personaggio importante per molti motivi.

La trilogia di Dash & Lily non richiede molte ore da destinare alla lettura e, se avete amato la serie televisiva, rappresenta sicuramente un modo piacevole per trascorrere il tempo durante il periodo natalizio.

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Minor Premise, recensione

Minor Premise è l’esordio alla regia di Eric Schultz, filmmaker newyorchese che ne firma anche la sceneggiatura in collaborazione con Justin Moretto, confezionando un’opera sci-fi che non ricorre all’utilizzo di grandi effetti speciali e si concentra invece sugli aspetti scientifici e sull’approfondimento psicologico del protagonista.

Al centro della trama c’è lo scienziato Ethan (Sathya Sridharan) che, per allontanarsi dall’ingombrante ombra del padre, si impegna totalmente nel campo della neuroscienza apparentemente trovando gli elementi alla base della personalità umana. Il giovane, però, senza rendersene inizialmente conto, si ritrova “diviso”, per sei minuti ogni ora, tra le varie caratteristiche.
La sua rivale e partner sul lavoro Ali (Paton Ashbrook) si ritrova così a gestire Ethan, le cui reazioni e scelte risultano assolutamente imprevedibili, mentre il loro capo Malcolm (Dana Ashbrook) causa non poche pressioni nell’attesa di ottenere dei risultati.

La struttura di Minor Premise che, ovviamente ricorda in parte una storia classica come quella del Dottor Jekyll e Mr Hyde, permette di non avere bisogno di un budget molto elevato e di poter concentrare la propria attenzione sulle performance degli attori e sulla gestione dell’intricato puzzle creato per rappresentare i vari aspetti della personalità del protagonista, ben interpretato da Sathya Sridharan. Il compito dell’attore non era particolarmente facile, tuttavia il risultato è di buon livello e in grado di mettere in secondo piano dei passaggi a vuoto dello script e dei personaggi secondari non particolarmente incisivi.
Gli aspetti scientifici sono trattati in maniera credibile e piuttosto efficace, mentre la sceneggiatura firmata da Moretto e Schultz non lascia il segno per quanto riguarda l’evoluzione emotiva della coppia al centro della trama, delineando così dei personaggi un po’ freddi e distaccati.

Minor Premise, tuttavia, grazie alla regia asciutta di Schultz e alla sua capacità di affrontare le conseguenze dell’esperimento di Ethan senza causare troppa confusione negli spettatori, risulta una visione stimolante e interessante, suscitando curiosità per la direzione che prenderà la carriera del filmmaker dopo questa opera prima un po’imperfetta ma intrigante.